12 luglio 2023

SI PUO' SEMPRE DIRE UN SI' O UN NO

Padova, è estate già da un pezzo.
Sono qui per visitare il Museo dell'Internamento ma una scritta attira la mia attenzione.
Non sapevo del Giardino dei Giusti del mondo, proprio di fronte al Tempio dell'Internato ignoto e al Museo, basta attraversare la strada.
È una scritta che ha l'efficacia assertiva e un po' sfrontata degli slogan, di quelli che non attendono repliche.

Non ci avevo mai pensato davvero. Anche quando sono con le spalle al muro, posso sempre dire un sì o un no. Posso accettare un compromesso e ripetere passivamente un sì o un no detto chissà quando; posso correre un rischio e pronunciarlo senza rete di protezione.
Questo è un luogo in cui si ricordano i Giusti, ma la frase -quella che non ammette repliche come uno slogan- può essere anche la chiave per entrare al meglio al museo e interpretate la scelta degli internati militari italiani.
Ho i versi di Montale in testa.
Sento che è un momento importante perché Montale non è un poeta da giorni feriali, non per me. Non li ricordo a memoria, ora che trascrivo le mie note di viaggio devo andarli a cercare. Non smetterò di sorprendermi leggendoli:

Dicono che chi abiura e sottoscrive
Può salvarsi da questo sterminio d'oche;
Che chi obiurga se stesso, ma tradisce
e vende carne d'altri, afferra il mestolo
anzi che terminare nel paté
destinato agli dei pestilenziali.

In classe li spiego così: dicono che chi ritratta e sottoscrive una dichiarazione o una confessione può salvarsi da questo sterminio di esseri indifesi ("oche"); dicono che chi rinnega se stesso e tradisce, denunciando i propri compagni, riesce  ad afferrare il mestolo invece di finire nel paté destinato agli dei della peste, le divinità del male. 
Montale parla in termini assoluti: la prigionia come allegoria, impiega immagini concrete per esprimere un dolore esistenziale; quello degli IMI è un caso di specie, ma non sono sicuro che sia una forzatura interpretare i versi del suo Sogno del prigioniero anche come un riferimento al NO pronunciato da 650mila internati militari italiani, alcuni dei quali ho conosciuto. 
Quando la poesia è alta, comprende anche i casi particolari.
Decido di visitare questo luogo della memoria.

La semplice grandezza del bene
Leggo i nomi. Alcuni li conosco, altri no ma mi incuriosiscono; leggo le loro storie o per meglio dire do un'occhiata rapida alle informazioni che scopro inquadrando il qr code.
Un luogo fisico e immateriale a un tempo. 
È molto fisico: ho i piedi nell'erba e per scattare una foto devo scostare un po' un ramo; è anche un luogo digitale, come se le storie fossero altrove, nello spazio che tutto accoglie, la grande piazza del mondo.
Leggo poche parole e colloco nello spazio e nel tempo l'azione dei giusti, la loro lotta spesso silenziosa contro i genocidi di ieri e di oggi. 
Leggo della Shoah, degli Armeni, della Bosnia, del Ruanda.
A rendere materiale la memoria, un albero e una semplice stele, con nome scritto per sottrazione di materia: come se dal vuoto, dal silenzio della storia, emergesse l'eco di un sì alla vita, di un no alla morte.
Mi fermo davanti al nome di Giorgio Perlasca.


Un magnifico impostore, di quelli che fanno atti di eroismo e ti chiedono: Tu cosa avresti fatto al mio posto? 
La sua storia è stata raccontata da un bel libro di Enrico Deaglio. Sempre più spesso, questa vicenda avvincente è raccontata a teatro, perché i giovani sappiano ciò che è stato e immaginino ciò che poteva essere se tutti. 
Mi rallegra e mi sorprende leggere accanto a quello di Perlasca questo nome:
Mi rallegra, perché Giovanni Palatucci era un uomo della mia terra, nipote del vescovo della mia diocesi. 
Mi sorprende, perché la sua vicenda è oggetto di un confronto storiografico per fare piena luce sulla sua figura, da alcuni studiosi messa in discussione. 
Bello trovarlo qui, così lontano dalla nostra terra. So che potrei parlargli nel mio dialetto e mi capirebbe. Casa è il luogo in cui rispondono al tuo dialetto.
Poco più in là, quasi a formare una triade di nomi a me cari, un dottore che a molti non dice ancora nulla:
Non era solo il papà di Piero e il nonno di Alberto (sarebbe già un merito): ha salvato ebrei nascondendoli con falsi ricoveri nel reparto di psichiatria da lui diretto in provincia di Torino.
Mi colpiscono due steli vicine: hanno lo stesso cognome, non può essere una coincidenza.
Non lo è.
Lei è stata un'intellettuale turca che ha denunciato il genocidio armeno, subendo processi e condanne.
Leggo le sue parole e mi sembra di ritrovare quelle di Perlasca.
Forse i Giusti, quelli che rischiano la vita e rinunciano alla libertà per fare del bene a persone che non sono della loro nazione o della loro religione, hanno un linguaggio comune. Forse è la lingua universale dell'umanità e non ha bisogno di traduzione:

Per quanto mi riguarda io ho fatto il mio dovere. Ho fatto qualche cosa che chiunque avrebbe dovuto fare. Non ho taciuto, ho parlato. Ho preceduto coloro che volevano parlare e mi sono assunta la responsabilità di quanto ho fatto, l'ho difeso ad ogni costo. 

Lei è Ayse Nur Zarakolu, deceduta nel 2002; il marito  Ragip, vivente, ha condiviso con la moglie la lotta per costruire un dialogo tra tutte le culture presenti in Turchia e per difendere i diritti umani.
Nemmeno di Giacomo Gorrini sapevo nulla.
Leggo che è stato ambasciatore italiano, uno dei principali testimoni oculari del genocidio armeno, che ha denunciato all'opinione pubblica italiana quando ancora la parola genocidio non esisteva (sarà coniata nel 1944).
Un'altra stele con più nomi mi colpisce:
Leggo "la storia di una salvezza e di un'amicizia".
Belli questi titoli: non saprei aggiungere né sottrarre una parola.
Elsa e Gino erano marito e moglie, Giuditta era la madre di Elsa: hanno ospitato una famiglia ebrea, quella del dottor Falck, in fuga dall'Istria e dalle persecuzioni razziali naziste. Dopo la guerra, le famiglie hanno continuato a vivere insieme come una sola famiglia.

Alberi, nomi e storie
Alberi per ricordare i giusti che si sono opposti allo sterminio, rischiando di far parte essi stessi dello sterminio.
Alberi e nomi, cone una sepoltura che ha ancora da dire ai vivi di oggi e di domani.
Alberi, nomi e storie di sì e di no, pronunciati senza calcolo per amore dell'uomo -o del dio- visto nell'altro.
Forse adesso posso attraversare la strada.

G.V.