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23 giugno 2025

SAN GIOVANNI, IL DESTINO SUL DAVANZALE

Indagare i segni del vero in una notte magica
Anche se i bambini di oggi, non per colpa loro, pensano sia quella di Halloween, la notte dell'anno più ricca di significato culturale e antropologico, almeno alle nostre latitudini, è molto probabil-mente quella di San Giovanni.
Le ragazze in cerca di marito cercavano il responso sul loro futuro con un rito che la memoria popolare ha custodito: lasciavano l’albume di un uovo in un bicchiere d’acqua o più verosimilmente in un bacile, lasciato sul davanzale durante la notte di San Giovanni.
A contatto con l’acqua, l’albume disegnava delle forme che al mattino venivano interpretate dalla fantasia popolare come vaticini per il futuro.
Tra i segni di buon auspicio c’erano forme simili a vele o a chiese: annunciavano fortuna, viaggi, matrimoni. In particolare, una barca con le vele gonfie era considerata il presagio di un viaggio in America.
Altre forme, invece, venivano interpretate come segni di disgrazie o di malattie in arrivo.
Questo rito, di chiara origine precristiana, è collocato in una data di passaggio tra stagioni e cicli agricoli, in coincidenza con una delle feste più importanti del calendario cristiano.
La festa di San Giovanni, così vicina al solstizio d'estate, si trova in una posizione speculare rispetto al Natale, che coincide con il solstizio d'inverno.
Mia nonna mi parlava anche del cardo, ma i miei ricordi non sono precisi.
Leggo che questa pianta è presente nei riti di San Giovanni in varie regioni italiane, sempre in riferimento all’amore.
Ad esempio, si chiedeva al cardo se un amore fosse corrisposto: si prendeva un cardo in fiore, si bruciacchiava la testa del fiore e si immergeva il gambo in acqua durante la notte; se al mattino il cardo era ancora vivo, significava che l’amore era ricambiato.
In altre varianti, dalla posizione assunta dal cardo le ragazze capivano se si sarebbero sposate entro l’anno.
Immagine creata con l'intelligenza artificiale

In una delle canzone del suo album "Canzoni della Cupa", dal titolo "La notte di San Giovanni", Vinicio Capossela rievoca i riti popolari di questa notte magica e propiziatoria:

Ora le ragazze pure di cuore
Ancora sentono le parole
Delle ombre nel vacile
Dentro l'acqua continuare a dire 
[…] 
Ora le ragazze per San Giovanni
Chiedono al fuoco di svelare gli inganni
Chiedono al cardo chiedono al piombo
Chi avranno un giorno per compagno intorno
E anche le crude Masciare
Questa notte vogliono volare
E ognuno indaga nel cielo
Qualche segno dal mondo del vero

Nel testo mi colpisce il riferimento alle "masciare", le nostre "janare": in questa notte speciale, anche loro vogliono volare. Sono definite “crude”, per la loro natura selvaggia, non addomesticata né addomesticabile.
Capossela cita il cardo e il piombo fuso; quest’ultimo veniva utilizzato in alcune regioni come strumento per predire il futuro, attraverso l’interpretazione delle forme create dalla solidificazione del metallo, che veniva fuso su una fiamma e poi versato nell’acqua.
La notte di San Giovanni è una testimonianza del legame tra l'uomo e i cicli della natura e del folclore che ha plasmato l'immaginario collettivo per secoli.
Forse prima di importare artificialmente e acriticamente le tradizioni di altre culture, avremmo potuto tentare almeno di conoscere le nostre.
G.V.

15 giugno 2025

IL VALORE ANTROPOLOGICO DELLA FESTA DI SAN VITO

La festa di San Vito è ricca di significati antropologici, anche legati alla tradizione religiosa valvese.

Un noto proverbio diffuso nel Sud Italia dice: 

A San Vito ogni mugliera vatte ‘o marito 
(A San Vito ogni moglie picchia il marito)

È un proverbio d’ispirazione carnevalesca; mi fa pensare alla 'libertas Decembris', che nell’antica Roma caratterizzava i 'Saturnalia': nei giorni dal 17 al 23 dicembre, infatti, in ricordo dell'età dell'oro veniva lasciata allo schiavo la libertà di prendere in giro il padrone, impartendogli ordini per un giorno.  

Era una sospensione temporanea dell’ordine abituale della società, in cui le regole abituali venivano sovvertite per un giorno, per poi tornare alla normalità il giorno successivo. Una "libertà controllata", quasi una valvola di sfogo collettiva. 

In una sua satira, il poeta Orazio dice al suo schiavo: 

Di’ pure: ti serva di schermo la libertà decembrina, dacché la sancirono gli avi

Alla festa di San Vito è legato anche il fenomeno del tarantismo.

San Vito era infatti considerato il santo protettore delle persone morse dalla taranta, il mitico ragno che si credeva fosse responsabile di crisi isteriche, convulsioni e stati di trance, soprattutto nelle donne.

La pizzica tarantata era la danza frenetica utilizzata come rito di guarigione, accompagnata da musica ritmata e tamburelli.

Così la descrive Vinicio Capossela, nella sua celebre canzone "Il ballo di San Vito":

Le nocche si consumano, ecco iniziano i tremori
Della taranta, della taranta, della tarantolata...

Durante queste estasi coreutiche, San Vito veniva invocato come figura sacra, capace di intercedere e portare sollievo.

Anche questo rito costituiva una sospensione delle norme, una forma di espressione corporea e spirituale in cui il corpo femminile trovava un canale per comunicare tensioni interiori, disagi sociali e dolori repressi.

La data non è casuale: a San Vito inizia il periodo della mietitura, un momento decisivo nel calendario agricolo.

A San Vito ogni moglie picchia il marito”.

Il potere si rovescia, la donna conquista il centro della scena, con il suo ritmo sfrenato, come una menade al ridestarsi dei riti in onore di Dioniso.

Nella foto – tratta da Valva Foto Storiche di Valentino Cuozzo – la statua di San Vito è portata in processione accanto a quella di San Michele. Con ogni probabilità, l’immagine si riferisce alla festa di quest’ultimo, patrono di Valva.

I due santi sono uniti in una suggestiva leggenda locale, legata alla figura della cosiddetta “zingara” che avrebbe contaminato l’acqua di una delle due vasche della Grotta di San Michele, lavandovi i panni e scatenando così la maledizione del santo: “Grano in Puglia e felci a Valva”.

La tradizione racconta però anche dell’intervento di San Vito in favore del popolo valvese, che avrebbe mitigato la maledizione con le parole: “Lasciane un po’ per il mio cane”.

E così, se a Valva ancora oggi cresce il grano lo dobbiamo proprio all’intercessione di San Vito

G.V.

07 maggio 2025

IL SUONO DELLA FESTA: IL TAMBURO DI SAN MICHELE

Non è semplice stabilire quando sia cominciata, a Valva, la tradizione del tamburo di San Michele. 
Certe cose ci sono, si tramandano, si portano avanti ed è bello così, ma legarle a un contesto o a un avvenimento può farcele sentire più vicine e apprezzare ancora di più.
Prima dell'alba, nei giorni che precedono la festa patronale dell'8 maggio, mentre tutto dorme un tamburo gira per il piccolo borgo.
Un rullare amico, un suono che precede la luce e dà segno / della festa che viene -direbbe il poeta- ed a quel suon diresti / che il cor si riconforta.
Dal 2012, il tamburo è affidato al signor Michelino Cuozzo, che lo suona con dedizione -e gratuitamente- ogni mattina della novena. «È giusto portare avanti certe tradizioni, finché si riesce», ci dice.  
Qualche anno fa ha rinunciato al compenso che il comitato festa voleva riconoscergli e ha chiesto che con quei soldi fosse comprato il tamburo, come è stato fatto. 
Ecco il signor Michelino in azione:

Un tamburo per far tornare i soldati a casa
Le testimonianze finora raccolte ci riportano agli anni del dopoguerra. 
La signora Feodora D'Ambrosio collega la tradizione proprio a quel contesto storico. Finita la guerra, le mamme attendevano il ritorno a casa dei figli che erano al fronte. A suo avviso è probabile che l'usanza di suonare il tamburo per la festa di San Michele sia nata come atto di devozione, insieme all'abitudine in quel periodo di fare molte processioni per ottenere il ritorno dei soldati. Il comitato della festa patronale ricompensava il suonatore del tamburo con un chilo di pane al giorno.
Ricorda una scena in particolare: una madre gettatasi ai piedi di una statua in processione, disperata per il mancato ritorno dei due figli.
C'è un episodio molto significativo legato al tamburo.
Uno dei primi a suonarlo -ricorda zia Dora- era il signor Matteo Cozza. Quando si ammalò gravemente, la moglie fu costretta ad andare a vendere il tamburo a Oliveto e col ricavato riuscì a comprare un po' di pasta per la sua numerosa famiglia (otto figli, due erano morti bambini).
La signora Antonia, vedendo il marito rattristato per la perdita del tamburo a cui era tanto affezionato, gli promise che lo avrebbero ricomprato una volta guarito.
Purtroppo Matteo morì nel 1953, a poco più di cinquant'anni.

I ricordi di zio Antonio
Dai ricordi rimasti in paese, altri nomi emergono tra i suonatori del tamburo negli anni del dopoguerra.
Antonio Cozza e Giuseppe Alfano, ad esempio. 
Zio Antonio – recentemente scomparso – suonava un tamburo appartenente a Bonaventura Megaro, storico maestro di banda. Ricordava che, per un certo periodo, era Michele Alfano detto Girinea, l’altro capobanda del paese, a scegliere chi dovesse suonarlo. Zio Antonio ha raccontato anche un episodio buffo: una mattina, nel silenzio dell’alba, mentre faceva rullare il suo tamburo tra i vicoli deserti del centro storico, trovò un uomo ubriaco addormentato all’aperto, davanti alla chiesa madre. 

Il recupero della tradizione
Verso la fine degli anni Ottanta,  il signor Pietro Cozza raccontava ad alcuni nipoti di quando, anni prima, organizzava le feste patronali di Valva. 
Grande appassionato di musica, aveva persino fondato una propria banda musicale. Con il terremoto, però, gli strumenti andarono perduti; tutti, tranne un tamburo, che riuscì a recuperare.
Fu proprio da quei racconti che nacque l’idea di riportare in vita la tradizione del tamburo di San Michele. Il tamburo venne sistemato, e così due nipoti di zio Pietro — prima Salvatore, poi suo fratello Michele — ripresero la tradizione, più o meno all’inizio degli anni Novanta.

Quando una tradizione è viva
Quando ero uno studente delle medie, ho contribuito a realizzare un giornalino di classe in cui ho curato la pagina dedicata al tamburo di San Michele. Qualche anno fa, il blog "Gozlinus" ha pubblicato quella pagina: 

fonte

A distanza di quasi quaranta anni da quelle semplici frasi- scritte a macchina dalla mia professoressa di italiano- continuo a pensare che il tamburo "sta a indicare la gioia della popolazione per la festa in arrivo", anche se forse sono meno convinto che la tradizione affondi "le radici nella notte dei tempi", ma non è importante. Perché se una tradizione non è antica, non necessariamente perde valore; la sua forza si misura nella capacità di continuare a parlarci: di far sognare i bambini, di far attendere una festa di paese con le bancarelle, di confortare il sonno fragile di una persona anziana, di strappare il primo sorriso della giornata.
A tenerla viva è anche la sua capacità di adattarsi senza perdere identità, di rinnovarsi senza snaturarsi. 
Quest'anno, ad esempio, il signor Michelino è stato accompagnato da un gruppetto di persone, tra le quali il parroco e in un caso anche il sindaco. 
Un sorriso all'alba
(foto tratta dalla pagina Facebook
della Parrocchia San Giacomo Apostolo)
Alcune famiglie hanno lasciato il caffè pronto davanti alla porta, una signora ha accolto il piccolo gruppo offrendo dei cioccolatini. 
Un caffè per il suonatore
(foto di Stefania Feniello)
Piccole storie, di ieri e di oggi, che sono come dei battiti che fanno capire che il cuore di una piccola comunità è vivo.

Questo post è poca cosa, ma è dedicato alla memoria del signor Antonio Cozza la cui voce ho riascoltato -con emozione- mentre scrivevo queste righe.

Un cordiale ringraziamento:
Al signor Michelino Cuozzo, innanzitutto per la dedizione con cui consente a questa tradizione di conservarsi e anche per la sua preziosa testimonianza (grazie anche alla figlia Valentina che l'ha raccolta).
Alla signora Feodora D'Ambrosio, che ha condiviso i suoi ricordi e ha offerto un'interessante chiave di interpretazione della tradizione.
Alla signora Marinella Cozza, che ha raccolto la testimonianza del caro papà Antonio.
Alla signora Norma Caldarone, che ha consentito di ricostruire le vicende del recupero della tradizione.
Alla signora Stefania Feniello, autrice del video e della foto del caffè.
Alla signora Anna Cecere, nipote del signor Matteo Cozza, che ha contribuito a ricostruire la storia del tamburo di famiglia.
G.V.

23 marzo 2025

LEGGERE UN VESTITO, ASCOLTARNE LA VOCE

23 marzo
Giornata dell'abito tradizionale valvese

In occasione del Giorno della Pacchiana, il blog "la ràdica" pubblica un album dedicato al vestito della nostra identità: si intitola 👉 L'abito delle nostre radici (basta cliccare sul titolo per vederlo).

La copertina

Ecco la prefazione al lavoro:

Quello che un abito racconta

Il Giorno della Pacchiana è un’occasione per riscoprire e onorare le tradizioni legate al vestito tradizionale della nostra comunità, simbolo di identità, cultura e memoria.
In questa giornata rendiamo omaggio alla nostra storia attraverso un abito che parla di amore e sacrificio.
Quello da “pacchiana”, infatti, non è solo un abito, non è solo tessuto; è un viaggio che attraversa le generazioni, portando con sé la forza di una tradizione, le emozioni racchiuse nei ricordi e i legami che sfidano il tempo.
Di molti abiti restano solo le foto, testimonianze silenziose di momenti che il tempo ha reso immortali. Donne che sorridono nell'eterno spazio della memoria, donne in posa, fiere e consapevoli della propria identità, del loro ruolo nella famiglia e nella comunità. Nei loro abiti trasmettono orgoglio e dignità. L'esuberanza delle giovani, la compostezza delle anziane: diverse modalità di esprimere la propria femminilità.
Alcuni abiti, per fortuna, si sono conservati e ancora ci parlano.
Ogni abito racconta l’amore e la dedizione con cui è stato tramandato e custodito, diventando simbolo di un affetto che va oltre le epoche. Lo stupore che proviamo oggi nel contemplarlo nasce dal sentimento del legame profondo che unisce il passato al presente in un abbraccio senza tempo.

La pagina introduttiva

Un esempio di pagina dedicata a una parte dell'abito

La presentazione del corpetto

La dedica

Alla Giornata del costume tradizionale valvese, che potremmo sintetizzare con Il Giorno della Pacchiana, abbiamo dedicato i seguenti post:

20 marzo 2025

L'ABITO DA SPOSA DI ROSA

 [...] vestivi un abito rosa
per farti – novissima cosa! – ritrarre in fotografia…
Guido Gozzano

Il 2 marzo 1935 è un sabato.
Alle 9 del mattino, due giovanissimi valvesi sono in chiesa per celebrare il loro matrimonio.
Pietro Grasso, di 22 anni, è figlio di Ferdinando e di Maria Michela Feniello.
Rosa Figliulo, ventenne, è figlia di Michele e di Maria Corrado.
L'abito della sposa è arrivato fino a noi e, a novanta anni di distanza, continua a raccontarci la sua storia.
Il rosa delicato del vestito, ormai sbiadito ma ancora riconoscibile, conserva l’eleganza di un’epoca lontana.

Non è solo una testimonianza della moda di quegli anni: è il segno di un amore giovane, puro, pieno di speranza.
Un abito non è solo tessuto; è un viaggio che attraversa le generazioni: ecco perché continua a raccontare la forza di una tradizione, le emozioni della memoria, i legami che vanno oltre il tempo.
Un abito racconta anche l’amore e la cura con il quale è stato tramandato e custodito; un abito è lo stupore con cui oggi lo ammiriamo, è un legame che abbraccia il presente e il passato.


Un sentito ringraziamento alla signora Rosa Grasso.

G.V.

11 marzo 2025

23 MARZO: IL GIORNO DELLA PACCHIANA

  23 marzo
Giornata dell'abito tradizionale valvese

Il nostro blog non ha la possibilità di istituire ufficialmente nuove ricorrenze, ma può sicuramente lanciare delle idee. Eccone una: facciamo del 23 marzo la Giornata dell'abito tradizionale valvese.

Un’occasione per rendere omaggio alla nostra cultura, alle donne della nostra storia e alle mamme, nonne e antenate delle nostre famiglie.

Quelli della cultura contadina sono molto più di semplici abiti: sono un patrimonio che affonda le radici nella nostra storia e che rappresenta un simbolo di identità, non solo per le donne e gli uomini che li indossavano, ma per tutta la comunità.

Perché il 23 marzo?

L'ultima "pacchiana" di Valva

Proprio il 23 marzo di 15 anni fa, se ne andava con il suo abito da "pacchiana" la signora Pasqualina Torsiello, vedova Cuozzo, meglio conosciuta da tutti come zia Pasqualina.

Se coinvolgiamo tutti, potremmo trasformare questa giornata in una vera e propria festa della nostra cultura. Non servono grandi risorse, ma solo collaborazione e buona volontà.

Alcune idee per celebrare questa giornata

  1. Istituire la festa con una delibera comunale.
  2. Coinvolgere le scuole con un lavoro di ricerca storica: consultando album di famiglia, raccogliendo fotografie e dividendole per temi (ad esempio: il vestito quotidiano, il vestito da sposa, il vestito dello sposo), studenti e insegnanti potranno dare un contributo fondamentale, anche dal punto di vista simbolico, perché le tradizioni devono parlare -e raccontare- soprattutto alle nuove generazioni.
  3. Gli appassionati di storia locale potrebbero contribuire condividendo testimonianze, ricordi e fotografie.
  4. Creare un portale online dove raccogliere il materiale.
  5. Allestire una mostra interattiva e permanente, con contenuti accessibili tramite codice QR. Ovviamente, si può pensare anche a una mostra fotografica più tradizionale, simile a quella, bellissima, che si sta allestendo al Castello.
  6. Le associazioni culturali e turistiche locali potrebbero partecipare scegliendo l'aspetto che meglio rispecchia la loro sensibilità.
  7. Si potrebbe intitolare un vicolo del centro storico all'abito tradizionale valvese o - se si vuole un'espressione più icastica- denominarlo "Vicolo della pacchiana".

Insieme, possiamo dare vita a un momento di memoria e di festa, che celebra la nostra tradizione e il nostro legame con la storia: perché l'abito tradizionale valvese è un elemento di memoria collettiva che ci aiuta a comprendere meglio chi siamo e da dove veniamo.

Per concludere, una breve galleria di immagini tratte da Gozlinus:

Anni Venti del Novecento

1929: per il battesimo del figlio,
i genitori indossano l'abito del loro matrimonio

Monumento ai Caduti, inverno 1941.
Da sinistra: Caterina D’Arcangelo, Livia, modella padovana e (?)

G.V.