21 luglio 2023

CAVALLI 8 UOMINI 40

Cavalli 8 uomini 40
Al Museo dell'Internamento di Padova leggo il cartello affisso alla riproduzione di un treno utilizzato per la deportazione dei soldati italiani nei campi di prigionia del Terzo Reich e mi accorgo che queste parole non sono solo quelle di un ritornello che ora non riesco a togliermi dalla testa. 
Sono l'unità di misura di un treno merci, l'unità di misura della deportazione.
Penso ai miei concittadini che sono stati su un vagone come questo, dal settembre al novembre del 1943 e poi nei mesi successivi fino alla liberazione, da un campo all'altro, a volte da un paese all'altro, in inverno e in estate. 
Da un anno e mezzo cerco notizie su di loro ma non ne conosco ancora il numero preciso; alcuni resteranno ignoti, anche con ricercatori meno improvvisati di me. 
Penso agli altri, 650 mila in totale: di quanti non resta memoria, già oggi? Trasportati su treni merci perché non erano più considerati uomini, per arrivare in un campo in cui non sarebbero stati considerati nemmeno prigionieri di guerra. 
Entrato nel vagone, leggo la testimonianza di un deportato:

Il vagone, nuda scatola nera, ci inghiotte. Qualcuno butta dentro una balla di paglia, giaciglio e sedile per 40 uomini. Siamo in 53. La porta si chiude sull'ultima luce del tramonto. Apro lo sportello di uno dei quattro pertugi, alti, senza vetri, sulle estremità delle opposte pareti.  [...] Ci stendiamo, due a due, una coperta sulle gambe piegate, l'altra sulle spalle e sulla testa. La candela viene spenta. La fiammella rapida di un cerino o di un accendisigaro dà risalto, ogni tanto, a quel grumo d'uomini curvi, imbacuccati nelle coperte, la testa cacciata fra le ginocchia. [...]. E' come lo squarciarsi saltuario di un velo nero su una scena bestiale, una specie di "rivelazione" che ognuno ha, attraverso la visione complessiva, della miseria propria. [...] Poi riattacca la strascicata sinfonia ferrata delle ruote, lo sbatacchiare dei ganci d'attacco, i cigolii della vecchia scatola che pare sfasciarsi. [...] Nevica, largo e fitto. Dentro, le pareti del vagone, sotto agli spiragli, alle fessure e ai buchi, sono coperte da grosse formazioni di ghiaccio.

Giuseppe Zaggia, Filo spinato, Venezia 1945 

La rivelazione della propria miseria, attraverso la visione complessiva di uomini ridotti ad animali: guardo gli altri e mi accorgo di non essere più nulla. È l'opposto del canto di Ulisse, in fondo: fatti non foste a viver come bruti.
Treno merci, uomini, cavalli: è come se qui dentro i confini fossero diventati indistinti.
Il mio maledetto vizio delle comparazioni letterarie mi riporta alla mente le pagine drammatiche in cui Levi accusa i tedeschi di "violenza inutile", cioè gratuita. Da quel capitolo mirabile, il quinto de I sommersi e i salvati, mi torna alla memoria una frase che riassume la lotta per conservare la propria dignità: non siamo ancora bestie, non lo saremo finché cercheremo di resistere.
Entro nel museo e mi colpiscono subito i plastici che riproducono alcuni campi.
Uno è quello di Sandboster, tra Brema e Amburgo. 
Ricordo che è uno dei campi di cui parla un mio compaesano, Giovanni Milanese, nel suo diario.
Leggo che dopo l'8 settembre 1943 ha ospitato 67 mila internati militari italiani; in totale, in sei anni, 300mila prigionieri di 67 paesi, impiegati nell'agricoltura o nell'industria bellica; 50mila di loro, si calcola, sono morti di fame, di malattia o per le violenze subite.
Su un altro campo ho un po' più informazioni: è il campo di Giovannino Guareschi, l'autore di Don Camillo e Peppone, il campo di Alessandro Natta, segretario del PCI dopo Berlinguer; per me, è soprattutto l'ultimo campo in cui è stato prigioniero Giovanni Milanese (dal novembre 1944 alla liberazione): è l'Offizierlager 83, a Wietzendorf, a 50 chilometri da Hannover.  
Leggo le brevi informazioni accanto al plastico e mi torna in mente il concetto di unità di misura. In ogni camerata erano alloggiati da un minimo di 52 fino ad oltre 90 ufficiali, ma i posti letto erano sempre 52 per cui gli esuberi dormivano sui tavoli o a terra. 
Comprensibilmente, Giovanni Milanese saluterà la liberazione con queste parole: "Sono di nuovo un uomo e non più un numero".

Per approfondire:
👉Rapporto sul campo 83 Wietzendorf, del tenente colonnello Pietro Testa

Il post del blog "la ràdica" dedicato alla liberazione di Giovanni Milanese dal campo di Wietzendorf:

Questo è il sito del Museo dell'Internamento di Padova:



Visita al Museo dell'Internamento di Padova, 1 -continua-
G.V.