Gli oggetti di un museo parlano.
Basta saperli ascoltare dimenticando per un attimo quello che si conosce, quello che si legge nelle didascalie, le congetture e le ipotesi.
Come il profumo dell'erba appena falciata è intenso perché è un segnale di pericolo, un allarme contro il predatore, così forse è per gli oggetti di un museo della memoria.
Hanno un profumo anche se sono chiusi in una teca; è il segnale del pericolo contro l'eterno ritorno della guerra e della violenza dell'uomo sull'uomo, il segnale del rischio che il frutto dell'odio dia di nuovo seme.
Nell'antica Roma il berretto era il distintivo degli schiavi liberati. Nell'antica Roma. |
Io servo la patria facendo la guardia alla mia dignità di italiano (Guareschi, Diario clandestino) |
Andai anch’io davanti alla finestra della baracca 6 a vedere la commissione assistenziale inviata dal governo repubblicano. La commissione assistenziale italiana era un tenente catanese e un sottufficiale tedesco, e l’esigua cameretta rigurgitava di gente. Molti domandavano informazioni e a costoro il tenente rispondeva allargando le braccia e scuotendo il capo. Un ufficiale mutilato del braccio destro chiese se fosse possibile avere qualche piccola agevolazione nel trattamento: ma ciò non rientrava nell’ambito della commissione assistenziale. La quale, naturalmente, non poteva neppure prendere in considerazione i vari casi di tbc e di deperimento organico, in quanto si occupava dell’assistenza più urgente: quella morale. E difatti, ogni volta che uno -dopo aver congiurato un po’ curvo sul tavolo – firmava il foglio con la famosa dichiarazione d’obbedienza al Grande Reich, il tenente catanese si alzava in piedi e porgeva la mano al nuovo camerata: «Mi congratulo con voi di aver aderito alla giovane repubblica italiana». E il sottufficiale tedesco approvava gravemente col capo come per significare che l’Asse gioiva intimamente dell’avvenimento. Era la prima volta che vedevo un soldato italiano col nuovissimo emblema repubblicano del gladio incoronato di quercia. E sentii spaventosamente straniera quella divisa che pure era identica alla mia. E quel soldato, che pure apparteneva alla mia stessa terra, sentii straniero e nemico più ancora del tedesco che gli stava al fianco.
Giovannino Guareschi, Ritorno alla base, Milano, Rizzoli, 1989
Chi non aderisce sa che rischia molto.
Mi tornano in mente le pagine del diario di Giovanni Milanese in cui i compagni lo invitano ad accettare di lavorare -è ormai nel suo ultimo campo, a Wietzendorf- perché è denutrito e se lavorasse i tedeschi lo nutrirebbero di più.
Morire ma non optare, leggo inciso su una tazza proveniente dal lager lazzaretto di Zeithain:
Incisione di Mario Turi, marzo 1944 |
Tricolore dal Lager di Mittelbau-Dora. Donato al Museo dal cav. Sisto Santin, che lo definisce "il più caro dei ricordi, intessuto di rischi, di patimenti e di speranza" |
Tricolore dal lager di Dortmund |
Lembo della Bandiera del 383.mo Rgt. Fant. Venezia |
Il 9 settembre 1943 a Tirana, il comandante del 383.mo Reggimento Fanteria "Venezia" decide di distruggere la bandiera reggimentale, dividendola in tanti lembi.
"Erano le 17, ed il momento fu indescrivibile: era per noi il distacco più angoscioso dalle nostre famiglie, dall'avvenire, da ogni speranza. Io ho avuto questo lembo, che ho riportato in patria facendolo sfuggire alle numerose perquisizioni operate nei Lager di Meppen, Versen Biala-Podlaska, Sandbostel, Wietzendorf", scrive Andrea Fiorini, tenente comandante la compagnia comando del 383.mo Reggimento Fanteria "Venezia", che ha donato al Museo dell'internamento il lembo da lui ricevuto.
In questa metafora del paese allo sbando che era diventata l'Italia nei drammatici giorni dopo l'armistizio, leggo lo sforzo di custodire i frammenti di un simbolo, per ricostruirlo insieme dopo la tempesta e continuare a indentificarvisi.
Sì, gli oggetti di un museo parlano.