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28 dicembre 2024

UN ROMANZO AMERICANO: LA FAMIGLIA FREDA, 1

Un elenco e il primo nome.

Basta seguirne le tracce e ci si ritrova nelle pagine di un romanzo italiano e americano.

L'elenco è quello di un gruppo di italiani emigrati negli Stati Uniti che nel febbraio 1924 partecipano alla serata organizzata a Newark per raccogliere fondi da inviare al loro comune d'origine, Valva, allo scopo di costruirvi un monumento ai caduti in guerra.

Il nome è quello di Giacomo A. Freda, il romanzo quello di una famiglia che ha avuto due soldati che hanno combattuto la Grande guerra nell'esercito americano, un musicista professionista, un colonnello dell'aviazione che riposa al cimitero nazionale di Arlington (dove tra gli altri è sepolto John Kenned).

Amodio e Antonia

Partiamo da due valvesi emigrati a inizio Novecento, anche se in due momenti diversi: Amodio Giuseppe Maria Freda (classe 1857), figlio di Giacomo e di Maria Spiotta, e sua moglie Maria Antonia Alfano (classe 1869). 

Maria Antonia appartiene a una famiglia di cui ci siamo già occupati nel post La famiglia del venditore di maccheroni: è infatti la sorella di Ferdinando Alfano, emigrato nel 1909.

Il 1 luglio 1907 risultano registrati Freda Amodio & son.

I figli dovrebbero essere Giacomo  e Guerino, come apprendiamo dal censimento del 1910. 

Il documento non è molto preciso, ma ci consente di fissare alcune informazioni: Amodio risulta proprietario di un negozio di scarpe e i tre abitano a Newark, in Clay St. 77.
Negli elenchi della città di Newark del 1910 e 1911 risulta più genericamente "calzolaio".
Amodio non sa leggere né scrivere; nel censimento del 1930 risulterà invece che -pur non avendo frequentato la scuola e non parlando inglese- sa leggere e scrivere.  

Amodio rientra in Italia
Nel 1913 circa Amodio rientra in Italia.
Lo sappiamo perché in quell'anno, arrivando negli USA, il figlio Alfonso dichiara che il padre è il suo parente più prossimo in Italia.
Ci sembra particolarmente interessante il censimento del 1915:
Jack, Guerino e Alfonso Freda risultano insieme alla famiglia dello zio materno Ferdinando Alfano.

Gli altri Freda arrivano in America
Il 28 febbraio 1921Amodio torna negli Stati Uniti.
Con lui, sbarcano dal Cretic la moglie Antonia, il figlio Michael  (1898) e le figlie Angelina  (1901), Loretta (1903) e Caterina (1905). Sono tutti nati a Valva.
Dichiarano di andare da Alfonso, che risiede al 20-22 di Boyden Street, a Newark. La loro parente più prossima in Italia è la nonna delle bambine, Loreta D'Ambrosio.

Giacomo Amodio, "Jack"
Il primo valvese nell'elenco della serata tenuta a Newark è Giacomo, nato a Valva il 20 agosto 1891.
Arriva negli USA insieme al padre nel 1907. 
La data ci pone un problema: quello relativo alla visita miliare, che risulta essere fatta in Italia (dichiara di essere calzolaio). 
È riuscito a farla prima della partenza? Sembra un po' troppo giovane, per la verità. 
Il dubbio principale riguarda ovviamente la partecipazione alla Prima guerra mondiale; come vedremo, due suoi fratelli la combatteranno nell'esercito statunitense. 
Nel 1928 Giacomo chiederà la cittadinanza americana.
Risulta agente assicuratore e dichiara il nome completo: Giacomo Amodio. 
Giacomo morirà nel settembre 1944 a Newark.
La figlia Lucille ricorderà che il padre era appassionato di musica: suonava il violino in una piccola orchestra, in feste locali e cerimonie.
La moglie Aida R. morirà nel maggio1961.
Aida Libero era arrivata negli Stati Uniti a soli due anni. Con lei, il padre Antonio, la madre Filomena e i fratelli Antonio e Umberto. Dichiarano di andare dallo zio materno, Alfonso Perillo.
Una lapide a forma di cuore
Intanto, nel 1937 era deceduto Amodio, nel 1938 Antonia, entrambi a Newark.
Riposano nel Fairmount Cemetery, sotto una  lapide a forma di cuore, scritta in italiano.
P.s. Documents are taken by www.ancestry.com and www.it.findagrave.com
G.V.

21 dicembre 2024

PORTARE IL MIO NOME FUORI DELLA GUERRA -Monologo di un internato militare-

Un nome può nascondere un destino, dicono.
Io non ci credo molto, per la verità, ma quando penso al mio beh...qualche dubbio mi viene. 
Mi chiamo come mio zio: Onofrio Mastrolia.
Mi chiamo come mio cugino: Onofrio Mastrolia.
Mi chiamo come un nostro parente americano, credo un cugino di mio padre: Onofrio Mastrolia.
Mio zio ha combattuto l'altra guerra, era sergente, è caduto sul Grappa nel '17.
Ho visto una foto di alcuni soldati valvesi...una dozzina. Era il giorno del suo funerale, nel mese di dicembre.
Secondo me, hanno saputo della sua morte e hano chiesto una licenza...chi lo sa...un compaesano si va a salutare, si deve fare scosì.  Anche in guerra, se possibile.
Erano giorni duri, quelli. 
Il generale Diaz stava riorganizzando l'esercito, dopo Caporetto.
"Rifaremo l'esercito", diceva (almeno così ci raccontava la maestra Bebè).
E ci è riuscito, il generale Diaz: l'esercito è rinato, la guerra è stata vinta ma mio zio non c'era più.
Ora il suo nome, che è anche il mio,  è al monumento ai caduti del nostro paese.
Poi c'è il parente americano.
Mi hanno detto che c'era anche lui alla grande serata di beneficenza, vicino a Nuova York, quando hanno raccolto i soldi da mandare a Valva per costruire il monumento.
Se riesco a tornare sano e salvo, me ne vado in America e vado a conoscerlo.
Ance mio cugino si chiama come me, ma ora non so dov'è. È più giovane di me, non so se hanno chiamato anche lui a combattere.
So dove si trova mio fratello Michele: è prigioniero degli americani, combatteva in Africa, lui. 
Ma gli americani ora sonoi nostri alleati, forse lo hanno rilasciato...non lo so, non ho più notizie. È da quando lo hanno catturato in Albania che non so più nulla di lui.
So che ci sono altri compaesani con lui, mentre alcuni sono morti. 
Ricordo Ottavo Fasano, Michele Cuoco, Michele Cuozzo: tutti morti in Africa.
Hanno qualche anno più di me, anzi: avevano, avevano  ahimé...ma in fondo a Valva quasi tutti hanno qualche anno più di me, tra noi che siamo in guerra. 
Da qualche mese, sono diventato un lavoratore civile. 
Secondo alcuni dovrei ritenermi fortunato, ma proprio non ci riesco.
I tedeschi ci fanno uscire dal campo per andare a lavorare, la sera dobbiamo però tornare per dormire.
Non possiamo espatriare, naturalmente.
Mi sono iscritto alla cassa mutua, non mi pagano più come prima con la moneta del campo di prigionia: ora mi danno dei marchi, marchi veri finalmente.
Lavoro in un ingrosso di legnami, ad Hannover.
Ho imparato l'indirizzo, Hamelnstrasse 44, ma non serve a niente: non scrivo lettere e non ne ricevo, nemmeno corro il rischio di smarrire la strada, visto che ci muoviamo tutti insieme.

Guadagno 200 marchi al mese, lordi.
Come? Una bella paga? Sì, ma 100 se li trattengono...Kost und Logis...per vitto e alloggio, dicono; 50 se li prendono di tasse e altre spese, quelli che avanzano si possono spendere, ma solo negli spazi che dicono loro e ogni tanto si inventano pure una nuova multa.

Non vedo l'ora di portare finalmente il mio nome fuori dalla guerra.

G.V.

Immagini create da ChatGPT sul testo del blog "la ràdica"


10 dicembre 2024

L'ASSE -Monologo di un internato militare-

In memoria di Settimo e Ottavo


Ai figli si danno i nomi, poi a un certo punto iniziano i numeri.
Quinto, sesto, settimo, ottavo.
I miei genitori hanno iniziato a contare quando sono arrivato io: sono Settimo, mio fratello si chiama Ottavo.
Veramente, si chiamava.
Ora il suo nome è nel telegramma che abbiamo ricevuto dall'Africa Settentrionale.
È stato il primo valvese a cadere in questa guerra.
Lui combatteva in Africa, io in Italia.
In Italia, sì, perché l'isola di Coo si trovava nel Dodecaneso italiano.
Una colonia italiana, abitata da tanti italiani.
Quando sono arrivato ho notato subito le case ricostruite dagli italiani dopo il terremoto del '33. È bello ricostruire dopo una sciagura, chissà se riusciremo a ricostruire anche l'Italia dopo questo flagello della guerra.
Mi trovo qui, prigioniero a Stargad, da quando l'isola è stata invasa dai tedeschi.
Ci siamo opposti come potevamo, ma eravamo soli.
Aspettavamo i rinforzi inglesi, pensavamo che sarebbero venuti ad aiutare i loro che erano già con noi.
Ci siamo sentiti abbandonati, forse per loro non eravamo importanti.
Per i tedeschi…non ne parliamo…traditori dell'Asse, ci dicevano.
Prima per me l'asse era una parte dell'ingranaggio di un orologio.
L'asse è in acciaio, è una ruota dentata che ingrana in una ruota più grande.
Io lo so, perché  ho imparato da mio padre la precisione paziente di chi aggiusta orologi. Ora che lui non c'è più, quello che ho imparato da lui lo metto in pratica e i valvesi lo sanno.
Oppure l'asse per me era solo un piano di legno lungo e stretto, che si ottiene tagliando un tronco nella sua lunghezza. Ho aiutato tante volte mio fratello Alfonso, che è falegname. 
Poi a un certo punto ci hanno detto che l'alleanza con i tedeschi si chiamava Asse…
E i tedeschi mi hanno fatto prigioniero, il 4 ottobre, insieme a 2500 italiani e a 600 inglesi.
Pensavo che era arrivata la fine, poi due giorni dopo ho saputo che i tedeschi hanno ucciso oltre cento soldati italiani e mi sono sentito fortunato…
Ora devo resistere, cercare di rimanere in vita e di non perdere la mia dignità di soldato italiano.
Nel campo vedo tanta sofferenza e tante malattie.
Secondo me, nel mondo c'è una malattia ancora più grande, si chiama ignoranza.
I popoli non farebbero le guerre, se no.
Se esco di qui e ho la fortuna di avere dei figli, farò di tutto per farli studiare.
Da grandi, devono aiutare gli altri, guarendoli dalle malattie e dall'ignoranza.
G.V.

Immagine
Simboli di Resilienza e Libertà, Creazione generata con l'aiuto di DALL-E, ispirata al racconto storico del blog "la ràdica".

09 dicembre 2024

COME FIORI DA SEMI PIANTATI IN GIORNI DIFFICILI. SE NE VA L'ULTIMA VEDOVA DI UN REDUCE VALVESE DELLA GUERRA

Un'altra pagina della storia di Valva si è chiusa.
L'ha chiusa la signora Marietta Marciello, che se ne è andata pochi mesi prima di compiere 93 anni.
Ora in paese non ci sono più vedove di soldati della Seconda guerra mondiale.
Marietta Marciello con due figli, negli anni Sessanta; fonte
Suo marito era Bonaventura Megaro, internato militare in Germania.
Il foglio matricolare del marinaio Bonaventura Megaro:
risulta prigioniero dei tedeschi in Austria,
dal 9 settembre 1943 al 20 agosto 1945
Quando Bonaventura era in guerra, Marietta era ancora una ragazzina: questo punto di vista conferiva ai suoi ricordi una tenerezza particolare, come quando mi ha raccontato la visita fatta con la maestra di Valva -la signora Fernanda Superchi Gaudiosi- a casa di zia S'ppuccia d Stefano, in occasione della morte in guerra del figlio. La signora Marietta ricordava la funzione in chiesa e poi il corteo al cimitero, per deporre dei fiori in memoria del giovane caduto.
Nei difficili giorni del settembre 1943 -mentre nella Valle del Sele infuriava lo scontro tra truppe alleate e tedesche- la giovanissima Marietta si è rifugiata con la famiglia in montagna, in una grotta in cui il signor Abramo Vacca cucinava per le famiglie che erano lì e rassicurava i bambini dando la colpa delle fiamme che si vedevano sulla montagna a pastori distratti che avevano lasciato acceso il fuoco. 
Tra le persone rifugiatesi nella grotta c'era anche la futura suocera di Marietta, la signora Carmela Conte.
Anche il racconto degli incontri con i tedeschi e con gli americani, filtrati attraverso gli occhi di una giovanissima donna, assumeva quasi il contorno di una fiaba, sia pure in un contesto drammatico come l'autunno del 1943.
L'americano che le offrì caramelle, biscotti e carne in scatola, dicendole che anche lui aveva una figlia piccola come lei. 
I tedeschi che quando abbandonarono il loro campo, incalzati dagli americani, lasciarono alla famiglia della giovane Marietta una cucina a carbone, che sarebbe servita anni dopo per il pranzo nel giorno del suo matrimonio.
Mi ha raccontato anche di aver trovato un ordigno bellico, proprio nel periodo in cui un sedicenne valvese -Aurelio Torsiello- era morto in seguito a un'esplosione.
La giovane Marietta aveva chiamato suo padre e l'ordigno era stato portato via da Angelo Michele Torsiello, con due buoi aggiogati e delle lunghe funi.
Molti anni dopo, due loro nipoti sarebbero diventati marito e moglie.
La futura suocera rifugiata nella stessa grotta, la cucina lasciata dai tedeschi in fuga che sarebbe servita per il pranzo del matrimonio, un giovane che porta via un residuo bellico e che sarebbe diventato il nonno della moglie del nipote: alcuni episodi -nei racconti di zia Marietta- sembrano contenere la promessa di un futuro felice, come fiori che sbocciano da semi piantati in giorni difficili.
L'incanto del racconto
I racconti di zia Marietta sono diventati due post pubblicati dal blog "la ràdica"; soprattutto, sono stati un'esperienza molto significativa, nella quale lo scrivente è stato testimone del riaffiorare di avvenimenti e stati d'animo di oltre ottanta anni fa, percependo il piacere del condividere ricordi e ammirando una notevole abilità nel raccontare; parlerei di capacità affabulatoria, come è proprio di un racconto capace di incantare l'ascoltatore. 
Anche in un caldo pomeriggio d'agosto, in un momento felice che è già ricordo.

Le nostre più sentite condoglianze alla famiglia di zia Marietta.

Ecco i due post dedicati ai racconti di zia Marietta:
G.V.

03 dicembre 2024

IL FIUME VERSO CASA: LA STORIA DI ANTONIO

Il 4 settembre 1942 è un venerdì.
A El Alamein, in Egitto, le forze britanniche fermano le forze dell'Asse: tra poche ore la vittoria strategica degli Alleati sarà sancita.
A Valva, diciassette giovani fanno la visita militare: saranno gli ultimi ad essere chiamati in guerra, da gennaio fino al 29 agosto 1943.
Come Pasquale Cappetta, che a diciotto anni e mezzo si troverà a Cefalonia e poi, scampato all'eccidio, in un campo di prigionia tedesco.
Oggi raccontiamo la storia di un altro soldato valvese che ha fatto parte dell'ultimo gruppo di chiamati alle armi: Antonio Torsiello.
Cento anni fa
Proprio oggi avrebbe compiuto cento anni.
Antonio nasce infatti a Valva il 3 dicembre 1924, figlio di Raimondo e di Francesca Fasano. 
Ecco come appariva Valva nel 1924:
fonte: Gozlinus; il castello è in ristrutturazione,
la "Torre normanna" ancora non è stata costruita;
si nota l'antica torre detta del "Belvedere"
Quando si presenta alla visita di leva, Antonio non ha ancora diciotto anni; dichiara di avere la licenza elementare: non sono molti i suoi compaesani ad avere questo titolo. Nel frattempo suo padre Raimondo è deceduto.
Chiamato alle armi il 28 agosto, vi giunge -come dicevamo- il giorno dopo.
Lo troviamo nel Deposito del 226° Reggimento Fanteria in Molfetta.

Sciolto dopo la Prima Guerra Mondiale, il 1 marzo1939 viene ricostituito con il nome di 226° Reggimento Fanteria Arezzo e il 24 maggio 1939 viene inquadrato nella Divisione di Fanteria Arezzo (53.a), insieme al 225° Reggimento Fanteria e al 53° Reggimento Artiglieria per D.f.
Sappiamo che la Divisione Arezzo nella Seconda Guerra Mondiale si trova in Albania, occupata dagli italiani. All'entrata in guerra dell'Italia, la divisione si trova schierata al confine jugoslavo. Quando Antonio arriva, la Divisione è destinata al presidio delle zone di Sarantaporos e di Belica: operazioni di rastrellamento e controllo del territorio.
 

Lo sbando
Pochi giorni ed è già il caos dell'8 settembre 1943: l'esercito è allo sbando, chi può torna a casa e sarà significativamente definito "sbandato" nei documenti militari.
La Divisione Arezzo è in forza al 343° Reggimento Fanteria a Corizza, nell'Albania meridionale (al confine con la Grecia). 
Sul foglio matricolare di Antonio Torsiello leggiamo che all'atto dell'armistizio "trovavasi in servizio presso il 226° Reggimento Fanteria in Molfetta, successivamente non è venuto a trovarsi in territorio metropolitano occupato dai non Fascisti".
Una formula contorta, obiettivamente, per descrivere una situazione insolita e purtroppo non adeguatamente prevista dai comandi militari: il territorio italiano occupato dai tedeschi. 

Ad esempio, sappiamo che il 17 settembre la 53.ma Divisione Arezzo viene circondata da uno schieramento di autoblindo e mitragliatrici dell'esercito tedesco: viene chiesto di combattere con i tedeschi.
Possiamo ipotizzare che Antonio non si sia trovato in questa situazione, altrimenti avrebbe sicuramente raccontato un'esperienza così drammatica (e un'eventuale fuga dai tedeschi).
Dunque, Antonio non torna a casa ma resta al suo posto.
Il 5 ottobre 1943 viene trasferito al 401° Reggimento Fanteria.

Questo reggimento dovrebbe essere il 401° Reggimento Pionieri, inquadrato nella 209ª  Divisione ausiliaria nel nuovo esercito cobelligerante italiano, a sostegno degli Alleati; questa divisione in particolare sarà al seguito degli inglesi dell'Ottava armata. La divisione seguirà lo spostamento del fronte verso Nord: alla fine della guerra si troverà dislocata tra Abruzzo, Umbria e Marche.  

La malattia e l'avventuroso ritorno a casa
Il 25 aprile 1944 Antonio viene ricoverato per un'infezione ai polmoni all'ospedale militare di Bari, dove resta fino al 12 giugno.
Ne accadono di cose, nell'ultima settimana in cui Antonio è ricoverato: gli Alleati liberano Roma il 5 giugno, il re Vittorio Emanuele III lascia al figlio Umberto la luogotenenza del Regno, gli Alleati sbarcano in Normandia.
Dopo una licenza di convalescenza di 90 giorni, si presenta alla visita di controllo e viene inviato in licenza di 40 giorni: è il 14 settembre 1944.

I ricordi della figlia e della nipote
Ecco come la figlia Cecchina ricorda i racconti del padre su questo periodo:

Quando eravamo bambini, mio padre cercava di non raccontarci vicende che ci avrebbero scossi; cresciuti, avevamo altri interessi, ma lui ci nominava sempre una terra lontana, che si raggiungeva per mare o in elicottero, dove combatteva e dove si ammalò. Gli dispiacque lasciare i suoi compagni. Fu ricoverato prima nell'ospedale militare da campo, poi nell'ospedale militare di Bari. 

Allo scadere della licenza, però, Antonio rimane "arbitrariamente a casa", come riportato dal foglio matricolare.
Diamo ancora la parola alla figlia: 

Mandato a casa per quaranta giorni [il ricordo coincide perfettamente con il foglio matricolare], non si ripresentò. 

La nipote Antonietta ricorda ancora i racconti che ascoltava da bambina, soprattutto nei giorni dedicati al ricordo (come ad esempio il 4 Novembre). Con lei cerchiamo di ricostruire la circostanza del mancato rientro dalla convalescenza:

Nonno non era guarito dall'infezione ai polmoni. Sua madre inviò un certificato per testimoniare la malattia e giustificarne il mancato rientro. Fu una questione di tempo: rientrò in ritardo.

Nei racconti di Antonio Torsiello colpisce un particolare: il ritorno a casa, forse dopo il ricovero. Ecco come lo ricostruisce la figlia:

Dato che c'erano i tedeschi, si fece a piedi il tratto da Barletta a casa: camminava di notte e di giorno si nascondeva sotto i ponti, costeggiando il fiume. 
Un antico ponte romano sul fiume Ofanto; fonte

Ai figli, Antonio raccontava anche le vicende della guerra di liberazione ed esprimeva la sua opinione sulle scelte politiche e militari dell'Italia, con queste parole:

Poi ci fu la ritirata dei tedeschi, che avevano occupato anche le nostre zone. I nostri alleati inglesi li spinsero avanti, fino a Montecassino: ancora oggi ci sono i cannoni rimasti e una valle di croci. 
L'abbazia di Montecassino al termine dei bombardamenti;
fonte

Cimitero caduti del Commonwealth a Cassino;
fonte

Secondo mio padre -continua la signora Cecchina- Mussolini aveva sbagliato ad allearsi con i tedeschi, dandoci in pasto ai lupi. Poi ci raccontava che chi si ribellava all'invasione tedesca si riunì sulle montagne: erano i partigiani, i difensori del popolo, come li chiamava.
Una vicenda emblematica
La notizia successiva sul suo foglio matricolare risale al maggio 1947: si presenta al Distretto Militare di Salerno e viene inviato in congedo illimitato, rimanendo a disposizione del Tribunale Militare di Napoli.
Il 16 luglio 1953 viene denunciato per il reato di diserzione, ma sarà poi assolto per insufficienza di prove, con sentenza del Tribunale Militare Territoriale di Napoli in data 2 febbraio 1956.
Sarà riconosciuto invalido di guerra a vita.

La decorazione della Croce al merito di guerra, nella campagna 1940-43-45 e il riferimento alla guerra di liberazione del 1943-45 nella quale "continuò a prestare sevizio militare con le truppe alleate e Bari" ci fanno ritenere  la vicenda di Antonio Torsiello  per alcuni versi emblematica: si inserisce in una sorta di intercapedine della situazione bellica, nella generale confusione di un esercito prima in rotta poi faticosamente ricostituito a sostegno dell'avanzata alleata. 
Vi troviamo la severità militare da un lato (con la denuncia di diserzione), il riconoscimento di aver combattuto nella guerra di liberazione dall'altro.
L'avventuroso ritorno a casa, ancora convalescente, seguendo il  corso dell'Ofanto.
Soprattutto, la sua condizione di invalido, che ne fa una vittima e un testimone della violenza con cui la guerra si abbatte su giovani vite.

Un sentito ringraziamento alla signora Cecchina che ha condiviso con noi i racconti di suo padre e a sua figlia Antonietta Annunciata per la preziosa collaborazione. 
Questo post è un piccolo omaggio per i cento anni del loro papà e nonno.
G.V.

11 agosto 2024

DOMENICO, LA RESISTENZA SUI MONTI D'ALBANIA

La vicenda di Domenico Torsiello ci consente di indagare un aspetto non molto noto della Seconda guerra mondiale degli italiani: soldati che restano in Albania dopo l'8 settembre, resistono alla cattura da parte dei tedeschi e vanno in montagna a combattere al fianco della Resistenza albanese.

Domenico nasce a Valva il 13 maggio 1923, da Nicola e Virginia Torsiello. Alla visita militare, nel 1942, risulta orfano di padre.

Chiamato alle armi, vi giunge il 9 gennaio 1943, assegnato al Deposito 9° Reggimento Autieri in Macerata. Imbarcatosi a Bari, giunge a Durazzo in Albania il 29 luglio 1943, nell'auto drappello Q.G. della Divisione "Firenze".

Bandiera del Regno albanese; fonte: Wikipedia

A questo punto, sul suo foglio matricolare troviamo un'annotazione insolita:

Foglio matricolare, Archivio di Stato di Salerno
 Proviamo a trascrivere:
Sbandato per gli avvenimenti bellici e portatosi (?) in montagna, 8 settembre 1943
Rimpatriato da Durazzo, 1 giugno 1945
Sbarcato a Brindisi, 1 giugno 1945

Come al solito, tre righe riassumono quasi due anni di guerra (o di prigionia, come accade a tanti altri militari italiani in quello stesso periodo).

Il contesto però, come dicevamo, è insolito.

Dopo l'armistizio di Cassibile, la 9ᵅ Armata italiana in Albania subisce un duro colpo a causa dell'indecisione dei suoi comandanti: quattro delle sei divisioni italiane vengono catturate dai tedeschi. Tuttavia, la 151ᵅ Divisione Fanteria "Perugia" e la 41ᵅ Divisione Fanteria "Firenze" resistono. Il generale Arnaldo Azzi, che comanda la "Firenze", rifiuta di cedere le armi e si allea con l'Esercito Albanese di Liberazione Nazionale. Nasce il Comando Italiano Truppe alla Montagna (CITaM), che riunisce soldati italiani dispersi.

Sul sito ANPI leggiamo:

E' così costituito il "Comando Italiano Truppe alla Montagna" (CITaM), forte di migliaia di uomini suddivisi in alcuni comandi di zona. Risulta presto evidente che una tale massa di uomini e un simile schieramento in terra straniera non sono adatti alla guerra partigiana, e così, presto, il CITaM, sottoposto all'attacco dei tedeschi e alla difficile convivenza con le formazioni della Resistenza albanese, si sbanda. Gli italiani, costretti a cedere agli albanesi armi ed equipaggiamento, trovano rifugio e ospitalità presso la popolazione locale. Alcuni militari entreranno poi nella Resistenza albanese.  fonte

Alla fine della guerra, Domenico si imbarca a Durazzo e sbarca a Brindisi il 1° giugno 1945; il giorno dopo lo troviamo nel campo di Taranto. A giugno ottiene una prima licenza di sessanta giorni, il 25 agosto si presenta al distretto di Salerno e viene inviato in licenza straordinaria senza assegni in attesa di reimpiego. La guerra per lui è davvero finita.


Fonti consultate:

G.V.

01 agosto 2024

MICHELE E GIUSEPPE, DUE VALVESI CATTURATI LO STESSO GIORNO

Il 1° marzo dell'anno scorso abbiamo dedicato un post a Michele Cuozzo, nel giorno del centesimo anniversario della sua nascita:👉 Il prigioniero che parlava inglese con una matita tra i denti. Erano i giorni dei festeggiamenti dei cento anni di un suo coetaneo, il signor Giuseppe Feniello; nati a pochi giorni di distanza uno dall'altro, nel 1923, i due hanno avuto vicende militari abbastanza simili e ci era parso giusto ricordarli entrambi.
Ora abbiamo a disposizione altri documenti che confermano che le loro vicende militari si sono intrecciate.

Due vicende che si intrecciano
Figlio di Antonio e di Maria Michela Cecere, Michele Cuozzo è chiamato alle armi il 12 settembre 1942, nel Deposito 15.mo Reggimento Fanteria in Salerno.
Parte per l'Africa Settentrionale il 25 febbraio 1943, imbarcandosi a Castelvetrano. L'aeroporto di Castelvetrano, in Sicilia, è una delle principali basi per il trasporto di personale e materiali sulle basi africane nella Seconda guerra mondiale.
Tre giorni dopo di lui, anche Giuseppe Feniello si imbarcherà da Castelvetrano alla volta di Tunisi.
Sbarcato a Tunisi, Michele Cuozzo è assegnato al 65.mo Reggimento Fanteria "Trieste", mentre Giuseppe Feniello è nella X Compagnia marconisti.
Il 6 aprile, entrambi risultano fatti prigionieri nel fatto d'arme della Tunisia.

Wadi Akarit
Per capire in cosa consista il "fatto d'arme", seguiamo le vicende del reggimento di Michele.
La Trieste è impegnata nella battaglia di Wadi Akarit, una valle in Tunisia; la parola wadi indica il letto di un fiume in genere asciutto ma che può riempirsi d'acqua durante al stagione delle piogge. 
Durante la Campagna di Tunisia il wadi Akarit è un'importante linea difensiva per le forza dell'Asse, a causa della sua posizione strategica: un luogo ideale di difesa contro l'avanzata degli Alleati.
La battaglia di Wadi Akarit si svolge il 6 e 7 aprile, con le forze Alleate che cercano di sfondare le difese dell'Asse per avanzare verso Tunisi.
Soldati britannici in Tunisia; fonte: Wikipedia
La battaglia è vinta dall'Ottava armata britannica (che comprende  anche unità americane e francesi). Non è però una vittoria facile, come dimostrano le parole del generale Alexander, che definisce quei combattimenti come "i più accaniti e selvaggi che avessimo sostenuti dopo El Alamein", aggiungendo che "gli attacchi ed i contrattacchi si susseguirono sulle colline ed i tedeschi come gli italiani dettero prova di un'intrepida determinazione e di un morale senza uguali".
Il generale Montgomery con alcuni soldati britannici; fonte: Wikipedia
La fanteria della Trieste è ridotta a tre battaglioni incompleti. L'Ottava Armata conta quasi 1300 perdite e 32 carri distrutti o danneggiati, ma alle ore 22 del 6 aprile ha già fatto 5350 prigionieri, in gran parte italiani (e almeno due di questi sono valvesi).

Il destino dei prigionieri
Secondo lo storico Flavio Giovanni Conti

I prigionieri fatti tra El Alamein e la battaglia di Akarit, catturati per lo più dall'Ottava Armata inglese, furono nella stragrande maggioranza inviati in Inghilterra, mentre pochi rimasero in Egitto". I prigionieri catturati dagli inglesi vennero divisi tra i territori del Commonwealth; nell'ultima fase della Campagna d'Africa, i prigionieri italiani e tedeschi catturati dagli angloamericani ammontano a circa 250mila. Alla fine della guerra in Africa il numero dei prigionieri italiani è complessivamente di circa 300mila.  fonte

Come è avvenuta la cattura?
Rileggiamo le parole che il signor Giuseppe Feniello ha rilasciato in un'intervista raccolta dalla nipote Gerardina:
Fummo circondati dagli inglesi mentre marciavamo e ci trovammo di fronte un carrarmato, per questo il plotone dovette cedere. Consegnammo le armi e ci portarono nel campo di prigionia. Da prigionieri avevamo avuto anche l'ordine di chiudere l'otturatore, prenderlo e buttarlo via per evitare di consegnarlo al nemico.

Verso la libertà
Dopo la liberazione dalla prigionia, Michele giunge al Centro Alloggio di Fuorigrotta il 27 luglio 1946, due settimane prima di Giuseppe.
Michele viene inviato in licenza di rimpatrio di 60 giorni; sul suo foglio matricolare leggiamo che nessun addebito può essere elevato in merito alle circostanze della cattura e al comportamento tenuto durante la prigione di guerra.
Il congedo illimitato arriva il 26 settembre 1946; il suo foglio matricolare riporta anche la data dell'espatrio: 25 maggio 1947: la località estera in cui si reca è indicata con il codice 4987 (sappiamo essere la Francia).
Giuseppe ha raccontato così i giorni dopo la liberazione:

Sono stato liberato e portato a Porto Said il 9 agosto 1946, dove ci siamo imbarcati sulla nave che ci ha portato a Napoli.
In Italia sono arrivato il 7 settembre e a casa, a Valva, il 20. Sono arrivato con il treno fino a Contursi  e Angelino che mi aveva visto ha avvisato la mia famiglia del mio arrivo e sono venuti incontro i miei  fratelli Michele e Vitantonio. 
È stato un momento commovente. Anche quando sono rientrato a casa, io che ero un gran bevitore, figlio di un altro grande bevitore, mio padre mi ha detto: "Se sei ancora il mio Peppino finisci questo fiasco di vino". Io l'ho bevuto anche se mi ha dato alla testa.

Molto ricca la voce di Wikipedia dedicata alla Campagna del Nord Africa

Altri post
Le nostre due interviste al signor Giuseppe Feniello:

Il post dedicato al signor Michele Cuozzo:

La storia di Michael Strollo, figlio di emigrati valvesi negli Stati Uniti:

Approfondimenti
Per la ricostruzione del contesto storico, si suggerisce questa puntata di  Passato e presente

G.V.

08 luglio 2024

I DUE BISNONNI DI GIANLUCA NELLO STESSO CAMPO DI PRIGIONIA

Gianluca è un giovane che vive in Germania, dove è nato da genitori italiani, entrambi originari di Valva. Ama molto l'Italia e fin da bambino ogni anno torna a Valva, dai nonni e dagli amici. Quando ha letto il nostro post dedicato al suo bisnonno Angelo Michele Cecere, sopravvissuto alla ritirata di Russia, ci ha contattato per segnalarci che altri due suoi bisnonni hanno condiviso la prigionia nello stesso Lager tedesco, come internati militari italiani: glielo raccontavano da bambino a Valva.

E' bastato un rapido controllo nel Lessico Biografico IMI per confermare questo suo ricordo d'infanzia.

Infatti, Michele Perna e Giovanni Falcone -entrambi classe 1923- risultano prigionieri nello Stalag IX C; nel caso di Michele Perna,  questo è il secondo campo, visto che egli è stato prigioniero anche nello Stalag III C, mentre il foglio matricolare di Giovanni Falcone riporta la dizione "campo di concentramento IV C".

Lo Stalag III C è quello di Alt Drewitz, vicino a Berlino. 
Lo Stalag IV C è situato a Wistritz, vicino a Dresda e non lontano dalla Cecoslovacchia occupata dai nazisti. 

Come abbiamo già osservato analizzando un documento relativo alla prigionia del valvese Enrico Santovito, per Stalag IX C probabilmente si intende il campo principale, in Turingia: attorno al quartier generale di Bad Sulza c'erano tanti sottocampi.

Sappiamo che molti prigionieri lavoravano nelle miniere di potassio della zona.

Bad Sulza, Stalag IX C: entrata del campo poco dopo la liberazione
 fonte Croce Rossa

Organizzazione dello Stalag IX; fonte

Wikipedia ci informa che il campo fu aperto nel febbraio 1940 per recludervi i soldati polacchi dopo l'invasione tedesca. Il campo fu evacuato il 29 marzo 1945: i prigionieri furono costretti a marciare verso est prima dell'offensiva americani; i prigionieri rimasti nel campo furono liberati dagli americani. 

Michele Perna nasce a Valva il 5 giugno 1923, figlio di Martire e di Maria Michela Torsiello; è chiamato alle armi e vi giunge l'8 gennaio 1943, assegnato al Deposito 24 Reggimento Fanteria in Gradisca, in provincia di Gorizia. 

Il 22 febbraio è trasferito al 23.mo Reggimento Fanteria  mobilitato (zona di Gorizia); il 31 marzo giunge in territorio jugoslavo.

Il suo reggimento ha compiti di presidio e controguerriglia; viene sciolto dopo l'8 settembre. 

Michele Perna viene catturato il 14 settembre, a Trieste.

Michele Perna

Giovanni Falcone nasce a Valva il 5 dicembre 1923, figlio di Antonio e Filomena Vuocolo; chiamato alle armi, vi giunge il 6 gennaio 1943, assegnato al Deposito 52.mo Reggimento Fanteria in Spoleto. 

Il 15 marzo 1943 è trasferito al 192.mo Reggimento Fanteria mobilitato in Croazia. Viene fatto prigioniero il 9 settembre, in Croazia.

Giovanni Falcone

Giovanni Falcone viene liberato il 5 aprile 1945 e trattenuto dalle forze armate alleate.

Il 13 aprile viene liberato Michele Perna, dagli americani.

Giovanni rientra in Italia il 18 agosto 1945, mentre Michele è rimpatriato il 5 settembre; sottoposto a interrogatorio presso il Distretto Miliare di Salerno, è inviato in licenza straordinaria.

Alle spalle, i due giovani soldati hanno quasi 600 giorni di prigionia, una parte dei quali trascorsa almeno con la consolazione di un volto conosciuto, di un compaesano col quale poter parlare nello stesso dialetto delle stesse persone.

Non sanno ancora che il figlio di Michele e la figlia di Giovanni un giorno diventeranno marito e moglie.

🙏Un caloroso ringraziamento a Gianluca Parisi e alla mamma Filomena Perna per la collaborazione e le foto fornite.

G.V.


25 giugno 2024

LA MASSERIA CON L'ALBERO DI TIGLIO: ZIA DUNETTA RICORDA IL TEMPO DELLA GUERRA

Zia Dunetta ha 88 anni, è piccola e minuta ma ancora piena di energia; cura il suo piccolo orto e le sue galline, dà una mano al figlio veterinario a badare alle pecore: vedova di un pastore, ha fatto questo lavoro tutta la vita, anche prima di sposarsi.

Mostra ancora straordinaria abilità quando quaglia il latte, la generosità di sempre quando offre un assaggio di ricotta o di formaggio.

La nostra preziosa collaboratrice Lucia Farella le ha chiesto se ricordava qualcosa sulla guerra; mentre Lucia le dava una mano a girare la ricotta, lei si è seduta su una sediolina di paglia, si è messa con le mani conserte e ha iniziato a raccontare.

La 'massaria' alle pendici della montagna
Nel 1943 avevo sette anni. Ricordo che andavamo in contrada Elice, dove c'erano dei terreni sui quali pascolavamo le pecore; i terreni appartenevano alla famiglia Masi. C'era una grande massaria con quattro stanze al piano superiore, due delle quali avevano anche l'astr'c e al piano inferiore noi tenevamo le pecore. Davanti alla masseria c'era un grande tiglio.
L'astr'c è un pavimento lastricato, probabilmente in cemento; Lucia nota che zia Dunetta pronuncia la parola con grande stupore. Inoltre, quando parla del tiglio (usando il genere femminile, come è bello per indicare una pianta) fa un gesto con la mano portandola al naso, per sottolineare il grande profumo dell'albero.

Quello che resta della masseria Masi. 
La strada accanto è via Elice e conduce alla grotta di San Michele.
Foto di Valentino Cuozzo.

Il maiale rubato dai soldati 
Nel periodo della guerra anche altre famiglie si sono rifugiate in quella casa. Mio padre il giorno andava sempre in località Cappaio, mentre mio fratello e un suo amico pascolavano le pecore e dormivano per terra, nei pressi della proprietà di una famiglia alla quale i soldati rubarono un maiale. 

Il rumore degli aerei e le lacrime delle bambine 
Io e le mie sorelle andavamo a raccogliere la legna per il fuoco. La sera andavamo incontro al veterinario Tamburro e alla figlia Maria, che di giorno stavano in paese e la sera venivano da noi. La bambina stava con noi e quando sentivamo gli aerei ci buttavamo a terra. Mia sorella Maria gridava per la paura e faceva piangere anche questa bambina. Ricordo che un signore che era con noi le sgridava quando le sentiva piangere. 

Nella foto si nota il tentativo di recupero edilizio
effettuato nel periodo dopo il terremoto; foto di Valentino Cuozzo

Le caramelle dei soldati 
Quando sono passati i soldati, molti erano a piedi; noi siamo scesi verso il paese e lungo la strada noi bambini gridavamo "Caramelle, caramelle!" e loro ce le gettavano. 

Brutti tempi 
Che brutti tempi sono stati! La guerra è una brutta cosa. Che dici, possono tornare quei tempi? 

Forse -come suggerisce Lucia- una possibile risposta alla domanda di zia Dunetta potrebbe essere nelle parole di Kant: "La guerra è un male, perché fa più malvagi di quanti ne toglie di mezzo".

🙏 Rinnoviamo il nostro ringraziamento a Lucia Farella, che ha raccolto anche questa preziosa testimonianza. 
🙏Grazie a Pietro Vuocolo per la gentile collaborazione.
🙏Grazie a Valentino Cuozzo, che ha individuato e fotografato i resti della masseria Masi. 

Approfondimenti


Gozlinus ha pubblicato il 👉biglietto postale che il veterinario di Valva, il dottor Ciro Tamburro spedì nel 1947 per tentare di fare luce sulla morte improvvisa di sette galline.

G.V.