05 marzo 2022

"Pacchisti" e "magroni": l'ossessione della fame

Oggi dopo aver mangiato una consueta orribile "sbobba" di cavolo rapa mi sono deciso ad iniziare a scriverti questa lettera per parlarti un po' della mia vita perché tu sappia un giorno, quando capirai, quanto e come papino abbia sofferto nella sua lunga e durissima via crucis. Questa descrizione oltre a non essere completa (ci vorrebbe troppo tempo e carta per dirti tutto) non ti darà neppure una pallida idea della vita bestiale da me vissuta dall'11 settembre '43 in poi, perché solo chi l'ha vissuta può veramente comprendere.

La distribuzione della "sbobba" in baracca; fonte

Così inizia il diario di un internato italiano.
Da lettere e diari capiamo che una delle principali sofferenze patite dagli IMI, nei lager come al lavoro coatto, è la denutrizione.

Anche le testimonianze dei prigionieri valvesi sottolineano spesso la fame patita e il fatto di essere tornati a casa ormai diventati magrissimi.

In diversi casi le calorie giornaliere sono meno di 1000.              

Il pasto principale è la Suppe, detta "sbobba", una brodaglia di rape (in alcune lettere viene chiamata "acqua sporca"), con l'aggiunta o l'alternativa di un po' di pane di segala, 20-25 grammi di margarina, un cucchiaio di marmellata, 25 grammi di zucchero, 500 grammi di patate ogni due o o tre giorni, crauti crudi, un mestolo di brodo nero detto caffè e poche altre varianti.

Mancano del tutto carne, verdura e frutta fresca: questo incide drasticamente sull'assunzione di vitamine e favorisce malattie come pleuriti, tubercolosi e tifo esantematico.
Il cibo è scadente, a volte perfino avariato, spesso trattato senza il rispetto delle più elementari norme igieniche.

Gli internati militari italiani non possono avere l'assistenza della Croce rossa, a causa del loro status giuridico. Di conseguenza, l'unico vero aiuto arriva dalle famiglie attraverso i pacchi alimentari, ma questo avviene per i militari originari delle regioni del Nord Italia sotto il controllo dei tedeschi e della Repubblica di Salò, tanto che tra i prigionieri nasce una discriminazione tra i cosiddetti "pacchisti" e i "magroni".

Un prigioniero siciliano scrive:

I settentrionali ricevono pacchi e (Dio mio!) si allontanano da noi. La nostra miseria li fa appartare.

La "sbobba" è una specie di pastone come quello che si dà ai maiali; una mezza gavetta di acqua con pezzi di cavolo rapa, una specie che gli italiani non hanno mai visto fino ad ora.

Un soldato la descrive nei dettagli: 

Nella minestra o "sbobba" trovi ogni ben di Dio, gli ingredienti vengono lessati così come vengono dalla madre terra e cioè con fango, terriccio, sabbia, pietruzze, parti legnose e putride e piene di vermi. Per parecchio tempo questo luridume ci è stato somministrato senza sale e perciò più nauseabondo. Non potrai immaginare mai e poi mai come sia ributtante questa roba fino a che lo stomaco non si abitua a questa specie di alimentazione. 

La distribuzione della sbobba avviene in modo faticoso e umiliante. 

Un prigioniero racconta che per mangiare la fila dura anche sei o sette ore: migliaia di prigionieri al freddo e affamati, che cercano di sostenersi l'uno con l'atro per stare in piedi, mentre le guardie se vedono che qualcuno si sposta leggermente lo colpiscono con uno stiletto sulle gambe o gli aizzano contro i cani.

Al momento della distribuzione gli internati fanno la massima attenzione e a volte sorgono accese discussioni, per fare in modo che il cibo sia ripartito senza imbrogli e favoritismi.

Spesso alla sbobba vengono aggiunti disinfettanti e purganti.

Un internato militare prigioniero a Dachau scrive che questi hanno effetti fastidiosi debilitanti: "Qui quello che va più stitico va sedici volte al giorno. C'è un giro di diarrea che ci porta via tutti quanti".

Pur di mangiare, i prigionieri sembrano disposti a tutto, anche a dare la caccia ai topi; spesso si accontentano degli scarti alimentari nell'immondizia (e a volte si gettano nella melma del letamaio per prendere carote marce, mentre i tedeschi ridono).

Un internato militare valvese a Dachau, Pasquale Volturo, è protagonista di un significativo episodio legato al tema del cibo, così raccontato dalla figlia Fiorenza:

Il cibo era scarso e pessimo; come tanti, di notte, approfittava del buio per andare dietro alle ricche mense dei tedeschi e cercare tra i rifiuti una buccia di carota, di rapa, o, con maggiore fortuna, qualche patata. Fu proprio furante una di quelle notte che un militare tedesco lo soprese a "rubare cibo" e gli pianto la punta della sua baionetta nel polpaccio sinistro. Lui ce la fece a scappare e nascondersi. Si salvò. Da quell'episodio e da quella vita, che vita non era, aveva preso l'abitudine di raccogliere sempre le briciole dalla tavola apparecchiata e portarla alla bocca: era il suo marchio [...] di un soldato italiano fedele alla sua Patria.


Per approfondire
📙Mario Avagliano - Marco Palmieri, I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz'armi (1943-1945), il Mulino, 2020

Citazioni
Le informazioni e le citazioni contenute in questo post sono tratte dalle pagine 237-246 del libro di Avagliano e Palmieri

La testimonianza di Fiorenza Volturo relativa al padre Pasquale è tratta da questo suo articolo: