Oggi dopo aver mangiato una consueta orribile "sbobba" di cavolo rapa mi sono deciso ad iniziare a scriverti questa lettera per parlarti un po' della mia vita perché tu sappia un giorno, quando capirai, quanto e come papino abbia sofferto nella sua lunga e durissima via crucis. Questa descrizione oltre a non essere completa (ci vorrebbe troppo tempo e carta per dirti tutto) non ti darà neppure una pallida idea della vita bestiale da me vissuta dall'11 settembre '43 in poi, perché solo chi l'ha vissuta può veramente comprendere.
| La distribuzione della "sbobba" in baracca; fonte |
Così inizia il diario di un internato italiano.
Da lettere e diari capiamo che una delle principali sofferenze patite dagli IMI, nei lager come al lavoro coatto, è la denutrizione.
Anche le testimonianze dei prigionieri valvesi sottolineano spesso la fame patita e il fatto di essere tornati a casa ormai diventati magrissimi.
In diversi casi le calorie giornaliere sono meno di 1000.
Il pasto principale è la Suppe, detta "sbobba", una brodaglia di rape (in alcune lettere viene chiamata "acqua sporca"), con l'aggiunta o l'alternativa di un po' di pane di segala, 20-25 grammi di margarina, un cucchiaio di marmellata, 25 grammi di zucchero, 500 grammi di patate ogni due o o tre giorni, crauti crudi, un mestolo di brodo nero detto caffè e poche altre varianti.
Mancano del tutto carne, verdura e frutta fresca: questo incide drasticamente sull'assunzione di vitamine e favorisce malattie come pleuriti, tubercolosi e tifo esantematico.
Il cibo è scadente, a volte perfino avariato, spesso trattato senza il rispetto delle più elementari norme igieniche.
Gli internati militari italiani non possono avere l'assistenza della Croce rossa, a causa del loro status giuridico. Di conseguenza, l'unico vero aiuto arriva dalle famiglie attraverso i pacchi alimentari, ma questo avviene per i militari originari delle regioni del Nord Italia sotto il controllo dei tedeschi e della Repubblica di Salò, tanto che tra i prigionieri nasce una discriminazione tra i cosiddetti "pacchisti" e i "magroni".
Un prigioniero siciliano scrive:
I settentrionali ricevono pacchi e (Dio mio!) si allontanano da noi. La nostra miseria li fa appartare.
La "sbobba" è una specie di pastone come quello che si dà ai maiali; una mezza gavetta di acqua con pezzi di cavolo rapa, una specie che gli italiani non hanno mai visto fino ad ora.
Un soldato la descrive nei dettagli:
Nella minestra o "sbobba" trovi ogni ben di Dio, gli ingredienti vengono lessati così come vengono dalla madre terra e cioè con fango, terriccio, sabbia, pietruzze, parti legnose e putride e piene di vermi. Per parecchio tempo questo luridume ci è stato somministrato senza sale e perciò più nauseabondo. Non potrai immaginare mai e poi mai come sia ributtante questa roba fino a che lo stomaco non si abitua a questa specie di alimentazione.
La distribuzione della sbobba avviene in modo faticoso e umiliante.
Un prigioniero racconta che per mangiare la fila dura anche sei o sette ore: migliaia di prigionieri al freddo e affamati, che cercano di sostenersi l'uno con l'atro per stare in piedi, mentre le guardie se vedono che qualcuno si sposta leggermente lo colpiscono con uno stiletto sulle gambe o gli aizzano contro i cani.
Al momento della distribuzione gli internati fanno la massima attenzione e a volte sorgono accese discussioni, per fare in modo che il cibo sia ripartito senza imbrogli e favoritismi.
Spesso alla sbobba vengono aggiunti disinfettanti e purganti.
Un internato militare prigioniero a Dachau scrive che questi hanno effetti fastidiosi debilitanti: "Qui quello che va più stitico va sedici volte al giorno. C'è un giro di diarrea che ci porta via tutti quanti".
Pur di mangiare, i prigionieri sembrano disposti a tutto, anche a dare la caccia ai topi; spesso si accontentano degli scarti alimentari nell'immondizia (e a volte si gettano nella melma del letamaio per prendere carote marce, mentre i tedeschi ridono).
Un internato militare valvese a Dachau, Pasquale Volturo, è protagonista di un significativo episodio legato al tema del cibo, così raccontato dalla figlia Fiorenza:
Il cibo era scarso e pessimo; come tanti, di notte, approfittava del buio per andare dietro alle ricche mense dei tedeschi e cercare tra i rifiuti una buccia di carota, di rapa, o, con maggiore fortuna, qualche patata. Fu proprio furante una di quelle notte che un militare tedesco lo soprese a "rubare cibo" e gli pianto la punta della sua baionetta nel polpaccio sinistro. Lui ce la fece a scappare e nascondersi. Si salvò. Da quell'episodio e da quella vita, che vita non era, aveva preso l'abitudine di raccogliere sempre le briciole dalla tavola apparecchiata e portarla alla bocca: era il suo marchio [...] di un soldato italiano fedele alla sua Patria.