L'articolo di oggi, a firma di Silvia Pascale e di Orlando Materassi, è dedicato agli Internati militari italiani.
Silvia Pascale è una storica, Orlando Materassi è il presidente nazionale dell'ANEI (Associazione Nazionale Ex Internati nei Lager Nazisti).
Ecco ampi stralci del loro articolo pubblicato oggi; abbiamo evidenziato i punti a nostro avviso più importanti.
L’ALTRA GUERRA DEGLI INTERNATI MILITARI
La storia sconosciuta dei soldati italiani
e della loro resistenza nei lager tedeschi
Gli Internati militari italiani, i soldati catturati dall’esercito tedesco dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, hanno scritto una pagina fondamentale della Resistenza e le loro storie sono una grande testimonianza di coraggio. Dopo l’annuncio dell’armistizio, circa 650mila soldati pagarono un prezzo altissimo: i reparti tedeschi li disarmarono e li catturarono nel nord Italia, ma anche in Grecia, Albania, Jugoslavia e sugli altri fronti, avviandoli alla prigionia nei territori del Terzo Reich, dove diventarono schiavi di Hitler, lavoratori forzati nella macchina bellica tedesca. I vertici tedeschi, infatti, avevano preventivato da tempo una possibile defezione italiana e appena ebbero conferma dei loro sospetti attuarono contromisure tempestive per invadere la penisola, prenderne il controllo e sfruttarne uomini e mezzi.
Cosa significa Internati militari italiani? Il 20 settembre 1943, poco prima della proclamazione del nuovo regime fascista della Rsi, un’ordinanza del Führer decretò che i soldati italiani fatti prigionieri vedessero mutare la loro condizione in “Internati militari”. La definizione di questo status era per Hitler particolarmente importante: l’obiettivo rimaneva infatti lo sfruttamento economico del paese occupato e il reclutamento dei soldati come forza lavoro. [...]
La resistenza nei lager nazisti
Fondamentale in questa Resistenza fu la scelta dei soldati italiani: sbandati e privi di ordini dai vertici militari, lasciati al loro destino nei numerosi fronti di guerra da Badoglio fuggito a Brindisi con la Casa reale, non accettarono di aderire alla proposta che venne loro fatta di aderire a Hitler e a Mussolini.
I nostri militari ebbero fin da subito la possibilità di riacquistare la libertà e far ritorno a casa in cambio della loro adesione a continuare la guerra nei reparti della Wehrmacht o nel ricostituito esercito della Rsi. Rifiutarono ogni tipo di collaborazione con la Germania nazista e con la Rsi, scelsero volontariamente l’internamento conducendo la loro Resistenza senz’armi nei lager nazisti.
Erano parte di una generazione educata nel ventennio fascista al “Credere, obbedire, combattere”, eppure nel momento di dover decidere non esitarono, non rimasero indifferenti: rischiarono la propria vita opponendosi al nazifascismo.
Il loro rifiuto di collaborare delegittimò la Repubblica sociale sottraendo una forza consistente sia alla repressione fascista attuata contro le forze partigiane o impiegata negli eccidi di migliaia di civili, sia all’impiego bellico della Germania.
Una scelta antifascista che li sottopose al violento rancore tedesco obbligandoli al lavoro massacrante, alla fame, al freddo, a continui soprusi.
Un’altra guerra
Ben presto divenne chiaro che la decisione di sfruttarli come schiavi comportava molti problemi. La produttività degli Internati militari si rivelò assai inferiore alle aspettative, a causa delle cattive condizioni alimentari, del trattamento umiliante, dei compiti spesso assegnati senza tener conto delle competenze dei lavoratori, delle istruzioni insufficienti.
Inoltre, la detenzione dietro il filo spinato e le pessime condizioni di lavoro nell’industria pesante o nelle miniere, facevano spaventosamente crescere il numero degli ammalati. Negli ultimi mesi di guerra le condizioni di vita degli Imi utilizzati come lavoratori peggiorarono in modo drammatico, soprattutto nelle zone urbanizzate: i bombardamenti degli Alleati costituirono un pericolo anche per gli italiani e il sistema di rifornimento andò in tilt completamente. A questo s’aggiunse la durezza dell’inverno 1944-45. Il numero di morti e malati era alto. Non pochi furono uccisi perché scoperti a rubare qualcosa da mangiare. La Gestapo fu autorizzata a giustiziare sommariamente i lavoratori sorpresi a rubare o che tentavano la fuga o atti di sabotaggio.
Gli Imi combatterono, quindi, un’altra guerra. Una guerra senz’armi, fatta di resistenza alla fame, al freddo, alle violenze e al lavoro coatto, alla sopraffazione fisica, morale e spirituale.
Questi 650mila erano uomini che avevano vissuto il fallimento del regime fascista in cui erano cresciuti, la misera fine delle guerre di Mussolini, lo sfacelo delle forze armate dopo l’8 settembre.
La disinformazione fascista
La grande maggioranza di loro preferì la prigionia agli appelli a passare dalla parte di Hitler. Rimane un caso unico la scelta di massa di questi militari italiani. Una lezione preziosissima tuttora. A settantasette anni di distanza dalla fine della Seconda guerra mondiale avvenuta con la sconfitta del nazismo e del fascismo vi è la necessità di rafforzare la memoria storica di quel periodo per non disperdere i valori e le scelte che spinsero tanti giovani a opporsi alle due dittature, in particolare dopo l’8 settembre 1943, dando vita a una lotta resistenziale, che, seppur nella diversità delle azioni, contribuì alla disfatta del nazifascismo in Italia e in Europa. Il loro status di Imi fu facile argomento di disinformazione da parte della stampa fascista volendo far credere che la loro permanenza nei territori del Terzo Reich fosse dovuta alla volontaria disponibilità di lavoratori all’interno della macchina bellica nazista. Così non fu. La loro prigionia, diversa da quella degli altri deportati, assume la connotazione di Resistenza perché in ogni momento potevano dare la loro adesione alla Rsi. [...]
Dopo la liberazione
Ma il loro calvario non terminò nemmeno con la liberazione perché il loro rientro fu difficile e non organizzato: dagli angloamericani furono censiti come displaced persons, come dei profughi, tornarono dopo molti mesi e a volte con mezzi di fortuna. Dopo il ritorno dalla prigionia e per decenni, se non per tutta la vita, subiranno il trauma delle sofferenze e delle violenze subite [...]
Al rientro, la disinformazione della stampa fascista aveva generato nell’opinione pubblica la disconoscenza della scelta che avevano fatto, configurandoli molto spesso come collaborazionisti, generando difficoltà di reinserimento nel lavoro, nelle relazioni sociali e politiche, nei rapporti umani e familiari, in un paese colpito profondamente dalle sofferenze, dalle violenze, dalle morti generate dalla guerra.
La loro storia di volontari combattenti per la libertà d’Italia rimase colpevolmente nell’oblio per diversi decenni, benché fossero uniti idealmente a coloro che avevano combattuto in armi per rendere dignità a una nazione nel consenso internazionale.
Soltanto alla fine degli anni Ottanta gli storici hanno sottolineato l’importanza del contributo dato alla Resistenza degli Imi, e oggi vi è la necessità e la determinazione di rendere viva una cultura di Memoria condivisa: la loro vicenda deve finalmente avere pari dignità nella Storia della Resistenza, alla quale hanno contribuito per un’Italia repubblicana, libera e democratica.
Bibliografia
Ecco due testi degli autori dell'articolo:
La memoria legata al filo rosso
G.V.