25 aprile 2024

LA SCELTA DI DIR DI NO FINO IN FONDO

Il partigiano Johnny -protagonista del celebre romanzo di Beppe Fenoglio- è riuscito a scampare ancora una volta all'appuntamento con la morte ma ancora una volta ha visto cadere due compagni.

Il mugnaio che ha condotto in città i cadaveri, e che sicuramente sarà tra i più attivi nel dar loro una dignitosa sepoltura, offre un ricovero al giovane partigiano e gli fa un"discorsetto", di realismo e "buon senso".

Lo invita a non sfidare oltre la sorte ("la fortuna si consuma") e a tornare in pianura. Non ha senso crepare attendendo una vittoria che verrà lo stesso, "senza e all'infuori di voi" grazie agli Alleati che risalgono la penisola.

Nella risposta di Johnny, leggiamo il senso di una scelta netta, coerente e fondante, alla quale ha deciso di rimanere fedele ogni giorno.

Mi sono impegnato a dir di no fino in fondo, e questa sarebbe una maniera di dir di sì.

L'alternativa è la morte, ma Johnny ricorda bene le parole del suo amato professore: "partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità".

Stefano Dionisi in una scena del film di Guido Chiesa

La scelta di aderire alla Resistenza è ribadita ogni giorno, come i resistenti francesi di cui parla Sartre, coloro che "ad ogni ora del giorno e della notte, per quattro anni, hanno detto di no".

G.V.

18 aprile 2024

IL PRIGIONIERO INNAMORATO DELLA JUVE

Quando ha compiuto i cento anni ha ricevuto gli auguri anche dal sito ufficiale della Juventus, al quale ha rivelato di essere diventato tifoso bianconero negli anni della sua prigionia in Sudafrica, durante la Seconda guerra mondiale.

"Il segreto della mia longevità? Il tifo per la Juventus", spiegava Pierino Vacca, classe 1914.

fonte Repubblica Torino,
(foto pubblicata dal sito www.juventus.com)

Proprio alla sua passione calcistica è legata una bella esperienza televisiva: ospite della trasmissione "C'è posta per te", ha avuto la sorpresa di conoscere Gigi Buffon, da poco arrivato alla Juve.

fonte Repubblica Torino,
(foto pubblicata dal sito www.juventus.com)
La guerra di Pierino
Alla visita militare, Pierino Vacca dichiara di essere calzolaio e di sapere andare in bicicletta. 
Chiamato alle armi nel 1940, sbarca in Libia il 5 giugno.

Viene assegnato alla 15.ma sezione di Sanità mobilitata, con il compito di "portaferiti".
fonte Repubblica Torino,
(foto pubblicata dal sito www.juventus.com)

Il 23 gennaio 1941 risulta prigioniero di guerra in seguito agli avvenimenti di guerra in A.S. (Africa Settentrionale).
In un nostro precedente post dedicato alla sua vicenda, abbiamo ricostruito il contesto bellico della Libia👉Pierino, il calzolaio prigioniero in Sudafrica.
A dicembre gli inglesi, dopo aver ottenuto rinforzi e truppe fresche, iniziano a infliggere gravi perdite agli italiani.  A gennaio cade la piazzaforte di Bardia, non lontana da Tobruch: molti soldati italiani sono fatti prigionieri. 
Ipotizziamo che Pierino Vacca sia stato uno degli oltre ventimila soldati italiani fatti prigionieri a Tobruch
Di certo, il suo destino nei giorni e negli anni successivi è simile a quello di tanti soldati italiani: una lunga marcia a piedi lungo la via Balbia, fino al porto di Sollum; poi, l'imbarco sulle navi per Alessandria d'Egitto e i campi di smistamento sul Canale di Suez.

Prigionieri trattati come uomini
Da lì, la maggior parte dei prigionieri italiani viene inviata nel campo di Zonderwater, in Sud Africa.
"Erano uomini e uomini italiani e condividevano fatica, coraggio e soprattutto la dignità del momento", dice il celebre storyteller sportivo Federico Buffa in questo breve video in cui presenta il suo racconto tratto dal libro "I diavoli di Zonderwater. 1941-1947" di Carlo Arnese: la storia dei prigionieri italiani in Sudafrica, "che sopravvissero alla guerra grazie allo sport".
Ecco un breve estratto della presentazione del libro, sul sito della casa editrice Sperling & Kupfer:

Li aveva accolti un altipiano brullo disseminato di tende: alla loro partenza, sei anni più tardi, lascarono una vera città. Fu un capo illuminato, il colonnello Hendrik Fredrik Prinsloo, a capire che a quei giovani uomini doveva prima di tutto restituire una vita normale. Così scelse lo sport come alleato: promosse gare di scherma, atletica, ginnastica, oltre a un campionato di calcio vissuto con tale passione da trasformare in divi i più bravi fra i prigionieri".

Almeno uno di quei prigionieri, Pierino Vacca, decise che avrebbe tifato per una squadra di calcio con la maglietta bianconera. Non avrebbe mai cambiato idea.

🙏Un sentito ringraziamento alla figlia Giuseppina Vacca per la gentile collaborazione e per le foto inedite.

Per approfondire
Repubblica Torino, Ha centouno anni il più anziano tifoso della Juve

G.V.


17 aprile 2024

IL RAGAZZO SOPRAVVISSUTO ALL'ECCIDIO DI CEFALONIA E INTERNATO IN GERMANIA

Il 17 aprile 1924 era il Giovedì Santo; negli Stati Uniti veniva fondata la storica casa di produzione cinematografica Metro-Goldweyn-Mayer, celebre per il leone ruggente.

Quel giovedì di cento anni fa, a Valva nasceva Pasquale Cappetta, figlio di Giuseppe e di Francesca Strollo.

Abile e arruolato in seguito alla visita del 4 settembre 1942, Pasquale viene chiamato alle armi il 12 maggio 1943 e assegnato al Deposito del 33.mo Reggimento Artiglieria: è la famosa Divisione Acqui.

Dopo la Prima guerra mondiale, il reggimento viene ricostituito nel 1939, in tre gruppi aggregati alla 33.ma Divisione di fanteria "Acqui". Nella Seconda guerra mondiale il reggimento viene schierato sul fronte greco-albanese; dopo la resa della Grecia, tutta la divisione ha l'incarico di presidiare le Isole Ionie. Il reggimento d'artiglieria viene dislocato a Cefalonia, con un gruppo distaccato a Corfù.  fonte

La divisione Acqui
Dopo la proclamazione dell'armistizio, la Divisione Acqui è chiamata a una scelta drammatica. 
Gli ordini che giungono sono contraddittori: prima si autorizza l’uso  delle armi in caso di attacco da parte dei tedeschi, poi la sera del 9 settembre il comandante dell'XI Armata, Vecchiarelli, emana l'ordine di resa ai tedeschi in tutta la Grecia; il comandante della Divisione, Antonio Gandin, però prende tempo: considera l’ordine in contrasto con la dichiarazione dell’armistizio (le truppe italiane sarebbero in balìa di quelle tedesche). 
Gandin inizia le trattative con il comandante tedesco cercando di rinviare la resa. 
A Corfù il comandante italiano Lusignani rifiuta nettamente ogni trattativa con i tedeschi. 
Dopo vari tentativi falliti di contattare telefonicamente il governo italiano, solo il 13 settembre arriva dal Comando Supremo italiano, che si trova a Brindisi dopo la fuga, l'ordine di resistere alle forze tedesche, che devono essere considerate nemiche. 
Quando giunge l'ultimatum tedesco accade qualcosa di inedito: una consultazione fra le truppe italiane; ai soldati viene chiesto se consegnare le armi o combattere contro i tedeschi, quasi tutti decidono di combattere. 
Cefalonia, il 15 settembre inizia la battaglia. 
Tante testimonianze ricordano il forte spirito di corpo e la determinazione mostrata dai soldati italiani contro i tedeschi. 
Le truppe tedesche, grazie ai rinforzi giunti dall'entroterra e soprattutto grazie all'appoggio aereo, hanno la meglio sui soldati italiani dopo circa una settimana di combattimenti. 
Gli italiani si arrendono il 22 settembre, ma questo non ferma il massacro; il 24, le salme degli ufficiali trucidati nella "Casetta rossa" vengono gettate in mare, i corpi dei soldati bruciati. 
Nei tre giorni seguenti, i massacri si ripetono a Corfù, dove i tedeschi sono sbarcati il 24 settembre. 
La tragedia della Divisione Acqui non finisce a Cefalonia e a Corfù. 
Tre navi che trasportano i prigionieri vengono affondate, causando oltre mille morti (tremila, secondo altre fonti). Circa seimila sopravvissuti iniziano un viaggio di oltre un mese verso i campi di prigionia nell'Europa dell'Est. 

La cattura
Pasquale viene catturato dai tedeschi: diventerà il prigioniero matricola 117709, nel campo di Luckenwalde, Stalag del settore III A

Pasquale Cappetta in una foto risalente al periodo
in cui era emigrante in Germania
 
Come abbiamo riportato in altri nostri post, di lui gli Archivi Arolsen conservano due documenti.
Ecco un foglio di registro, con numero di matricola, codice del campo di prigionia, data di nascita a professione (o impiego nel campo):
Pasquale Cappetta è definito "bauer", "contadino"; fonte
Questo documento sembra essere un appello mensile (nel febbraio 1944):
Il nome che nell'elenco viene dopo Cappetta Pasquale sembra di un valvese,
ma la data di nascita non corrisponde; fonte

Come leggiamo nel sito memorieincammino.it, il registro del campo raggiunse la quota di 48600 uomini. Solo una parte di questi erano alloggiati nel campo principale, perché gli altri lavoravano nelle tante fabbriche dislocate nella regione del Brandeburgo.

fonte Wikipedia

Pasquale Cappetta risulta liberato l'8 maggio 1945, praticamente alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Tornerà in Germania, come emigrante, a Darmstadt; lo testimoniano anche da alcune foto nell'Archivio di Gozlinus.
Questa foto è scattata nel 1965 a Rossdorf: ritrae emigrati di Valva e del vicino comune di Colliano; lavorano in un'impresa specializzata nell'estrazione di rocce basaltiche:
fonte Gozlinus
La foto è particolarmente significativa per il blog la ràdica, perché insieme a Pasquale Cappetta ci sono i figli di due internati militari di cui ci siamo occupati. Proprio davanti a lui, infatti, c'è il figlio del signor Enrico Santovito, mentre il secondo della fila centrale, da sinistra, è il figlio del signor Domenico Strollo. Inoltre, accanto a Pasquale c'è il signor Lazzaro Del Plato, che ha combattuto in guerra, meritando la Croce al merito.
In quest'altra foto, scattata a Darmstadt, Pasquale si prende una meritata pausa:
Pasquale è in piedi; fonte


Approfondimento
Sulla Divisione Acqui si vedano i post:
 

G.V.

14 aprile 2024

LA VERA GIOVINEZZA

E' un volto famoso della RAI ma è anche il figlio di uno dei 650mila soldati italiani prigionieri degli inglesi nella Seconda Guerra Mondiale.

Giuliano Giubilei ha pubblicato un romanzo ispirato alla vicenda di suo padre e di tanti altri soldati: Giovinezza, Solferino.

Aldo Cazzullo ne ha fatto una bella recensione sul Corriere della Sera. 

Giovinezza non è quella gonfia di retorica evocata dalla canzone fascista, ma quella vera: la giovinezza sequestrata da Mussolini a una generazione di italiani, mandata a morire in una guerra senza speranza o a marcire nei campi di prigionia inglesi e americani sparsi in mezzo mondo.   

Nella presentazione del romanzo presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna a Roma, Walter Veltroni lo ha definito così:  

Non un libro di storia ma un romanzo appassionante che ci fa entrare nelle teste e nell'anima di quei soldati, travolti prima dalla sconfitta e poi da una lunghissima prigionia. Giovinezza ci parla della loro frustrazione, del loro dolore e della loro rabbia. 

Giuliano Giubilei (fonte Wikipedia)

La vicenda

I soldati italiani sono catturati nel Nord Africa a partire dal dicembre 1940, in Etiopia o sulle coste siciliane; alcuni di loro tornano a casa solo nel 1947. 

Il protagonista del romanzo, Andrea Monteschi, è uno dei 130mila soldati che si arrendono in Libia. Dal deserto, vengono trasferiti alla loro destinazione: a lui tocca il campo di Bhopal, in India, dove contrae la malaria. In seguito, sarà spedito nel campo di prigionia di Cowra, in Australia.

Alla presentazione romana ha preso parte anche la storica Isabella Insolvibile, autrice -qualche anno fa- di Wops. I prigionieri italiani in Gran Bretagna (1941-1946), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012.

Anche i prigionieri italiani in Gran Bretagna -circa 160mila- tornarono in Italia solo molti mesi dopo la fine della guerra. 

Perché il governo italiano non ha chiesto agli Alleati, dopo l'armistizio dell'8 settembre, la consegna dei prigionieri?

Giovinezza racconta la delusione dei prigionieri, che dopo l'8 settembre 1943 si illudono di essere vicini alla liberazione, ma il loro status di prigionieri rimarrà anche dopo la fine della guerra.

La questione del rimpatrio è certamente complessa; la storica Insolvibile sostiene che il governo italiano non desiderava che il rimpatrio avvenisse troppo in fretta, viste le condizioni in cui versava il Paese; alcuni rimarranno nei Paesi di prigionia come emigrati.

Sull'argomento, suggeriamo la puntata 👉Passato e Presente dal titolo Prigionieri italiani degli alleati.

G.V.

03 aprile 2024

LETTURE DANTESCHE NEL LAGER, PER SENTIRSI ITALIANI

Pensare alla letteratura nel Lager, per non dimenticare la propria dignità, per sentirsi ancora un uomo.

Lo ha scritto con parole sublimi Primo Levi, nell'episodio del canto di Ulisse. Mentre si reca a prendere la zuppa, insieme a un compagno di prigionia, Levi sta recitando il canto dantesco ma ha un vuoto di memoria e non riesce a completare un verso; scrive: 

darei la zuppa di oggi per saper saldare "non avevo alcuna" [presente nel canto dantesco]  col finale

In seguito commenterà che avrebbe dato veramente pane e zuppa "per salvare dal nulla quei ricordi". La poesia ha  creato un attimo di sospensione magica nell'inferno del Lager e ha aiutato il prigioniero a sentirsi di nuovo un uomo, non un numero.

Ho pensato a questo episodio leggendo, nel preziosissimo saggio Schiavi di Hitler di Mimmo Franzinelli (Mondadori), l'episodio del ciclo di lezioni di cultura italiana, organizzato dagli internati militari del campo di Stablack (Prussia orientale).

Campo di Stablack, Prussia orientale; fonte

Ecco il ricordo di un sottufficiale, Raffaelli, nel suo diario:

Pomeriggio. Nella nostra camerata il prof. Nino Betta, per invito di tutti, tiene la prima lezione di un corso di letture dantesche parlando dell'architettura generale e leggendo l'episodio di Paolo e Francesca. Mi colpisce la spontaneità dell'iniziativa e l'intensità della partecipazione spirituale. Ci vuole la sventura o l'amarezza per far ritrovare all'uomo le vie interiori.   op. cit., pag. 147

Mimmo Franzinelli ricorda che il professor Bruno Betta ("Nino"), docente liceale a Trento, terrà nel Lager anche lezioni su Manzoni, Carducci, Pascoli, D'Annunzio, Montale, oltre a scrittori tedeschi.

Commenta lo storico:

La passione del professore si coniuga con il coinvolgimento (anche nella lettura e recitazione) di altri ufficiali, che, più o meno consapevolmente, ritrovano nella letteratura nazionale un fattore di identità, un corroborante contro la disgregazione che il sistema concentrazionario vuole loro imporre. [...] L'importanza delle discussioni, di forme di auto-organizzazione, della lettura, di rappresentazioni teatrali e musicali è notevole in termini di galvanizzazione, di irrobustimento dello spirito di corpo.  op. cit., pagg. 147-148

In un articolo dedicato alla figura del prof. Betta, Giuseppe Ferrandi scrive che, intrattenendosi con i compagni di prigionia, Betta 

coglie la peculiarità dell'esperienza dell'internamento, cogliendone due aspetti apparentemente contraddittori: da una parte osserva lo sviluppo (quasi l'esplosione) della "coscienza del valore della libertà, della possibilità di discutere di tutto", dall'altra constata la "generale ignoranza civico-politica" e "l'impreparazione ad assumervi responsabilità, per la ventennale assenza di opportunità".                                                fonte: Questo Trentino, articolo citato nell' Approfondimento

Il prof. Bruno Betta;
l'immagine è nei due articoli citati nell'Approfondimento

In alcuni campi si riesce si riesce anche ad allestire una biblioteca; a Wietzendorf  come addetto c'è Federico Gentile, figlio del filosofo Giovanni; a Sandbostel la biblioteca raccoglie quasi duemila volumi.

Lasciamo ancora la parola a Mimmo Franzinelli:

Le isole di resistenza culturale costituiscono un'importante esperienza collettiva, un antidoto alla depressione, un'evasione intellettuale, un laboratorio di progetti per il futuro.
Tra gli ufficiali, più ancora che tra i soldati, molti erano cresciuti nel culto del duce e nella fede nel regime. La forzata sosta nei Lager è l'occasione di un ripensamento su quei valori, di una crisi di coscienza e dell'approdo a una nuova visione del mondo.     op. cit., pag. 150

Approfondimento

Segnaliamo due articoli dedicati alla figura del prof. Betta, pubblicati sul mensile Questo Trentino:
- Franco de Battaglia, Bruno Betta, n.11, 1 giugno 2007
- Giuseppe Ferrandi, 25 aprile: l'altra Resistenza di Bruno Betta, n.9, 3 maggio 2008

G.V.

30 marzo 2024

LA PASQUA LONTANA

In alcune aree interne del Sud, dal Molise alla Calabria, ancora si vede appesa a qualche finestra.

Nel suo vestito tradizionale, spesso a lutto in quanto vedova di Carnevale, con il fuso e la conocchia in mano; soprattutto, con penne di gallina infilzate, un vero e proprio conto alla rovescia verso la Pasqua: sette all'inizio, ne perde una ogni domenica.

La bambola della Quaresima ha origini antiche, addirittura precristine: testimonianza del sincretismo religioso che ha caricato di nuovi significati riti e simboli preesistenti.

Forse i soldati internati nei Lager nazisti e quelli prigionieri degli Alleati -almeno quelli di origine meridionale- hanno pensato alla bambola che scandisce il trascorrere delle domeniche di Quaresima, fino al giorno di Pasqua.

Forse il valvese Giovanni Milanese, autore di un diario da cui spesso abbiamo tratto testimonianze preziose, e i suoi compaesani internati come lui o prigionieri degli inglesi ricordavano quando andavano in giro, tra il Venerdì e il Sabato Santo, alla ricerca di legna "per il Sepolcro" (per accendere il fuoco nella veglia pasquale, sul sagrato della chiesa madre).

Per farlo, come in molte zone del Sud Italia, usavano un rudimentale e rumorosissimo strumento musicale in legno, a Valva chiamato lu 'nzierr. Veniva fatto roteare per annunciare che passava la raccolta della legna.

Dal blog Gozlinus prendiamo questa foto; lo strumento è stato costruito dal signor Attilio Cuozzo:

fonte

Infine, sicuramente avranno pensato al viccə, il caratteristico tarallo dolce con un uovo intrecciato, che la mattina di Pasqua le donne donavano ai bambini che avevano portato loro il ramoscello di ulivo benedetto la Domenica delle Palme.


A una tradizione del periodo pasquale di un'altra parte d'Italia  allude questo racconto di Mario Rigoni Stern, che dopo la campagna di Russia è internato militare nella Prussia orientale:
Un uovo di gallina cotto e colorato con erbe, foglie di cipolla e fondi di caffè: come quelli che le ragazze del mio paese usano donare ai ragazzi alla vigilia dell'Ascensione. Lo mangiai nell'angolo del recinto da dove si vedeva la campagna con le betulle rinverdite. Quell'uovo me lo aveva infilato nella tasca del pastrano una bambina polacca che ogni mattina incontravamo quando saliva sul treno con i compagni per recarsi a scuola. Mi guardava e mi regalava un sorriso che mi aiutava a vivere. La mattina del sabato Santo si era avvicinata furtiva e lesta; poi sentii quel peso insolito nella tasca e con la mano avevo scoperto l'emozionante dono.    
Mario Rigoni Stern, Aspettando l'alba
Uova decorate per la Grande Rogazione e il Giorno della Sensa, zona di Asiago
fonte


Per la foto delle uova decorate un sentito ringraziamento al signor Stefano Sartori, Malga Col del Vento.
G.V.

1918, LE CAMPANE DELLA PASQUA SUONANO A MARTELLO

Anche nel 1918 Pasqua cade il 31 marzo, ma la risurrezione sembra lontana.

Ecco come scrive il Corriere della Sera in prima pagina, in un articolo dal titolo La passione:

Mai più atroce Pasqua parve separare con una fiumana di sangue la parola di Cristo e l'opera degli uomini; mai nel fresco alito della primavera, tutta santa di generazione, imperversò tanto furore di distruzione. Presi dalla terribile angoscia della lotta che deciderà i destini del mondo, noi non udiamo nel suono delle campane la festa della risurrezione, ma come un supremo richiamo di aiuto. Suonano a martello, attraverso l'occidente, le campane della Pasqua. 

Ma la festa della resurrezione verrà: la data è oscura; l'avvenire è certo. Tanto sacrifizio non puo rimanere sterile, tanto dolore non può essere  senza fecondità, se in esso centinaia di milioni di uomini, fiore della terra, attestano più che la volontà, la necessità del rinnovamento.

Cartolina pasquale, Museo Francesco Baracca, Lugo
fonte

Tra i soldati che non sentiranno il suono festoso della campane della vittoria, dato per certo nell'articolo del Corriere, il fante Vito Feniello, morto per malattia il Sabato Santo nell'ospedale da  campo 059. 

Apparteneva al 79.mo Reggimento.

Vito era nato a Valva il 16 giugno 1892 (il giorno dopo la festa di San Vito: questo forse ne spiega il nome), figlio di Carmine e di Filomena Volpe.

Nei registri di leva troviamo i nomi di tre fratelli: Giuseppe (1895), Giovanni (1902), Michele (1910, panettiere).

Il numero dell'ospedale da campo ci fa capire che aveva la disponibilità di cento letti. 

Dal sito sanitagrandeguerra.it ricaviamo la forza organica del personale sanitario presso un ospedale da campo da 100 letti: 6 ufficiali (di cui 5 medici), 47 uomini di truppa (di cui un farmacista, 5 aiutanti di sanità, 7 portaferiti, 15 infermieri, un ecclesiastico e altri uomini con incarichi vari).

Non conosciamo con precisione la localizzazione del campo. Sappiamo che il 79.mo Reggimento, che fa parte della Brigata Roma, in questo periodo è impiegato in prima linea nel settore di Lavanech (M. Melino- M. Lavanech), in Trentino, dove rimarrà nel servizio di trincea fino al 25 aprile, quando sarà inviato in Val Camonica.

G.V.

29 marzo 2024

LA FEDE CHE AIUTA A RESISTERE

Il sostegno della fede religiosa fu fondamentale per gli internati. 

Nel Museo Nazionale dell'Internamento, a Padova, una teca custodisce questi oggetti sacri:

Ecco alcune, significative parole di presentazione:
Essenziale fu per molti il sostegno morale ricevuto dalla fede religiosa e consolante la serenità ricevuta nell'assistere alle funzioni officiate all'interno del Lager, anche segretamente, dai sacerdoti che si prodigavano nell'assistenza, spesso non solo simbolica, degli internati.

In un nostro precedente post, abbiamo riportato questa testimonianza di padre Silvino Azzolini, cappellano degli italiani nella zona di Vienna, tratta da Schiavi di Hitler (Mondadori), di Mimmo Franzinelli :

Dopo essere stati disarmati venivano trasportati in vagoni di bestiame con scarsissimo vitto nei campi  concentramento centrali, denominati Stammlager, o più brevemente Stalag, ove venivano spogliati di ogni cosa personale, persino delle catenelle e dei ricordi più cari della famiglia.
Brutalmente trattati senza alcuna osservanza delle leggi internazionali per i prigionieri, venivano spesso sottoposti a stringenti interrogatori perché aderissero al nuovo governo. Ma pochissimi cedettero a simili richieste, anche se minacciati di battiture e di digiuni. [...]
In un primo tempo veniva anche lor assolutamente proibito qualsiasi conforto religioso. Moltissime e assai frequenti furono le loro richieste per avere un cappellano, ma il rifiuto era persistente. Solo dopo alcuni mesi un certo numero di cappellani prigionieri internati furono messi a disposizione dei diversi campi di concentramento.   [Mimmo Franzinelli, op. cit., pagg. 234-35]
Michelangelo Perghrm Gelmi, La prima messa nel campo '43;
fonte
In molti Lager per soldati era vietata la permanenza di cappellani nel timore che potessero orientare in senso antifascista gli internati militari; essi erano invece presenti nei Lager per ufficiali.
Padre Guido Cinti lamenta che è vietato parlare con i soldati: può solo celebrare la messa domenicale, sotto il controllo di un interprete tedesco.
Particolarmente significativa ci sembra questa riflessione di Mimmo Franzinelli:
La fede religiosa può conferire una forza interiore che rinsalda lea decisione di tener testa alle persecuzioni e continuare a resistere.  [Mimmo Franzinelli, op. cit., pag. 233]

G.V. 

24 marzo 2024

NON SAREMO BESTIE FINCHE' CERCHEREMO DI RESISTERE

Sono trascorsi ottanta anni. 

E' il 24 marzo 1944. Il convoglio è partito la sera prima da Siedlce, località della Polonia occupata dai tedeschi. Arrivati in stazione, hanno tolto loro gli spaghi delle scarpe e le cinghie dei pantaloni. Al testimone che scrive, hanno tolto l'impermeabile. 

Sono gli internati militari che stanno lasciando un Lager diretti in un altro Lager, questa volta in Germania: Sandbostel.

Campo di Sandbostel; fonte

Lui è Giovanni Milanese, autore di un preziosissimo diario della prigionia. 

Ecco come descrive la giornata del 24 marzo:

Alle 6.30 siamo a Varsavia. Alle 7 siamo a Plome. Alle 9.30 a Boza Vola ed alle 13.30 a Kudico. Alle 24 a Francoforte.
Siamo sistemati in 40 per ciascun carro bestiame dove c'è a terra torba ed una cassetta in un angolo per i bisogni personali. Come si prevedeva non ci aprono mai la porta. Che disastro!...

Padova, Museo dell'Internamento

Milanese annota la presenza di una cassetta per i bisogni personali, "in un angolo".

Per quanto drammatica, la situazione sembra migliore di quella descritta da Primo Levi nel suo I sommersi e i salvati, nel capitolo "La violenza inutile".

Scrive Levi:

Neppure pensò a munire ogni vagone di un recipiente che fungesse da latrina, e questa dimenticanza si dimostrò gravissima: provoco un’afflizione assai peggiore della sete e del freddo. Nel mio vagone c’erano parecchi anziani, uomini e donne: tra gli altri, c’erano al completo gli ospiti della casa di riposo israelitica di Venezia. Per tutti, ma specialmente per questi, evacuare in pubblico era angoscioso o impossibile: un trauma a cui la nostra civiltà non ci prepara, una ferita profonda inferta alla dignità umana, un attentato osceno e pieno di presagio; ma anche il segnale di una malignità deliberata e gratuita. Per nostra paradossale fortuna (ma esito a scrivere questa parola in questo contesto), nel nostro vagone c’erano anche due giovani madri con i loro bambini di pochi mesi, e una di loro aveva portato con sé un vaso da notte: uno solo, e dovette servire per una cinquantina di persone. Dopo due giorni di viaggio trovammo chiodi confitti nelle pareti di legno, ne ripuntammo due in un angolo, e con uno spago e una coperta improvvisammo un riparo, sostanzialmente simbolico: non siamo ancora bestie, non lo saremo finché cercheremo di resistere.                                    Primo Levi, I sommersi e i salvati, Giulio Einaudi editore, 1986, Torino

"Evacuare in pubblico è un trauma a cui la nostra civiltà non ci prepara, una ferita profonda inferta alla dignità umana", scrive Levi. Anche se Giovanni Milanese non ne fa cenno in questa pagina del suo diario, possiamo comunque ipotizzare che in un vagone con quaranta deportati non sia stato semplice fare i propri bisogni, nonostante la presenza della "cassetta".

Padova, Museo dell'Internamento

E' possibile che nello stesso convoglio sia stato presente anche il tenente Guareschi di cui Giovanni Milanese parla in una pagina del suo diario, datata 4 giugno: il tenente Guareschi e il capitano Salvatori "hanno commemorato con molta passione l'anniversario dello statuto". Poche parole ma significative, a dimostrazione di quanto fosse vivo l'amor di patria negli internati militari.

Il tenente Guareschi diventerà poi l'autore della fortunata saga dei romanzi di Don Camillo e Peppone: Giovannino Guareschi.

G.V.



20 marzo 2024

ANCHE I RACCONTI SFAMANO: LA FAME NEL LAGER RACCONTATA DA TONINO GUERRA E GIOVANNINO GUARESCHI

La fame è uno dei principali problemi che un internato militare deve affrontare. 

Lo storico  Gabriele Hammermann, nel suo Gli internati militari italiani in Germania 1943-1945 [il Mulino], scrive:

Se relativamente all'alimentazione dei prigionieri poco produttivi molte imprese oscillarono tra l'adozione di rigide misure punitive e il ricorso a sistemi di incentivazione tramite premi, non ci sono dubbi sul fatto che le brutalità e gli abusi vennero considerati appropriati strumenti di pressione per ottenere un aumento del rendimento.   op. cit., pag. 181

Nel suo recente e preziosissimo Schiavi di Hitler [Mondadori], Mimmo Franzinelli riassume: "I Comandi dei Lager utilizzano la fame per stremare i prigionieri e piegarli alla loro volontà".

Nel saggio di Franzinelli troviamo alcuni testi del poeta Tonino Guerra -internato in un Lager vicino a Bonn- e di Giovannino Guareschi.

Ecco Anche i racconti sfamanodi Guerra:

La fame? La fame era tremenda e nel campo c'erano solo brodaglia con patate e pane secco. La sera nella baracca mi chiedevano dei racconti. Una sera, era la notte di Natale, non è arrivata la zuppa. Gli altri prigionieri come me avevano fame e pensavano a un piatto di tagliatelle. Io che non avevo mai seguito con attenzione mia madre mentre preparava da mangiare, all'improvviso ho ricordato tutto e iniziato a spiegare in dettaglio il procedimento per preparare la sfoglia. Prima la farina, poi le uova e sul tagliere si impasta tutto. Si stende col matterello e si ripiega per poter tagliare le tagliatelle. Intanto si mette l'acqua a bollire e a bollore raggiunto si buttano le tagliatelle. Il sugo è pronto e una volta scolate si unisce il tutto. Le ho versate nei piatti e tutti hanno mangiato con le parole. Qualcuno ha chiesto il bis.                            op. cit., pag. 105

Molto significativa questa poesia dal titolo La farfàla, qui riportata in traduzione:

Contento proprio contento
sono stato molte volte nella vita
ma più di tutte quando mi hanno liberato
in Germania
che mi son omesso a guardare una farfalla 
senza la voglia di mangiarla.                                      op. cit., pag. 106

Guareschi è libero: non ha più bisogno di cacciare le farfalle col desiderio di cibarsene.

Accanto alla leggerezza poetica di Tonino Guerra, l'ironia di un altro internato militare: Giovannino Guareschi.

Ecco una pagina del suo Diario clandestino:

La fame c'è e grava sulle nostre spalle in ogni azione della giornata e, la notte, popola i nostri sogni di visioni dolorose, e tutti l'accettano con rassegnazione come cosa fatale, come un morbo inguaribile. 
Ma per costoro la fame è diventata pazzia. Parlano continuamente di mangiare. Descrivono pranzi, cene, cenette, colazioni, merende. Descrivono panini imbottiti. Redigono in collaborazione ponderatissime liste di pranzi storici da celebrare al ritorno. 
C'è chi raccoglie indirizzi di locande con distinte di piatti caratteristici e compila guide gastronomiche d'Italia.
Altri annota accuratamente migliaia di ricette dei più ammennicoli culinari.
L'eterno e vano parlare di cibarie e l'eterno e vano pensare al mangiare hanno aumento il desiderio. E lo stomaco, nell'accesa immaginazione di costoro, ha assunto la dimensione adeguata al desiderio stesso: la dimensione di un bigoncio.
E' una forma di pazzia che annebbia d'angoscia i cervelli, e questi poveretti cacciano fuori tutte le ossa e diventano gialli più ancora per paura della fame che per la fame stessa.     Diario clandestino, Pazzia, 10 dicembre 1943

Nel saggio I militari italiani nei Lager nazisti- Una resistenza senz'armi (1943-1945), di Mario Avagliano e Marco Palmieri, troviamo un esempio pratico delle guide gastronomiche di cui parla Guareschi:

Due ufficiali molisani, il capitano Fedele Carriero e il capitano Michele Morelli, nel lager di Wietzendorf [lo stesso di Guareschi, ndr.] scrivono e disegnano "un po' per celia, un po' per men soffrire" un manuale di arte culinaria significativamente intitolato Padelle, non gavette! [...] Nel ricettario vengono proposti, accanto alle "Sbobbe tipo lager" e ai "Crostini al prigioniero", deliziosi e fantasiosi manicaretti, alcuni dei quali dai nomi insoliti ed evocativi, come "Cotoletta dei nostri sogni", "Frittata non ti scordar di me", accompagnati da disegni vivaci a colori acquarellati, la cui fattura [...] viene seguita passo dopo passo e apprezzata dai loro commilitoni, che attraverso le immagini si figurano quelle meravigliose pietanze.    op. cit., pag. 244
All'argomento della fame degli internati militari italiani abbiamo dedicato il post:
👉"Pacchisti e "magroni": l'ossessione della fame 

G.V.