23 luglio 2023

AL MUSEO DELL'INTERNAMENTO, TRA OGGETTI CHE PARLANO

Gli oggetti di un museo parlano. 

Basta saperli ascoltare dimenticando per un attimo quello che si conosce, quello che si legge nelle didascalie, le congetture e le ipotesi.

Come il profumo dell'erba appena falciata è intenso perché è un segnale di pericolo, un allarme contro il predatore, così forse è per gli oggetti di un museo della memoria.

Hanno un profumo anche se sono chiusi in una teca; è il segnale del pericolo contro l'eterno ritorno della guerra e della violenza dell'uomo sull'uomo, il segnale del rischio che il frutto dell'odio dia di nuovo seme.

Nell'antica Roma il berretto era il distintivo degli schiavi liberati.
Nell'antica Roma.

Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il regolamento,
ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli,
non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire.

(Levi, Se questo è un uomo)

Io servo la patria facendo la guardia alla mia dignità di italiano 
(Guareschi, Diario clandestino)
Sono oggetti che gridano il NO! pronunciato dagli internati militari alle richieste tedesche.
A quella di aderire alla Repubblica di Salò, innanzitutto; in alcuni casi, il loro è anche un no al lavoro per i tedeschi, come testimoniano alcune pagine del diario di Giovanni Milanese.
Ecco come Giovannino Guareschi descrive la scena di alcuni che aderiscono:

Andai anch’io davanti alla finestra della baracca 6 a vedere la commissione assistenziale inviata dal governo repubblicano. La commissione assistenziale italiana era un tenente catanese e un sottufficiale tedesco, e l’esigua cameretta rigurgitava di gente. Molti domandavano informazioni e a costoro il tenente rispondeva allargando le braccia e scuotendo il capo. Un ufficiale mutilato del braccio destro chiese se fosse possibile avere qualche piccola agevolazione nel trattamento: ma ciò non rientrava nell’ambito della commissione assistenziale. La quale, naturalmente, non poteva neppure prendere in considerazione i vari casi di tbc e di deperimento organico, in quanto si occupava dell’assistenza più urgente: quella morale. E difatti, ogni volta che uno -dopo aver congiurato un po’ curvo sul tavolo – firmava il foglio con la famosa dichiarazione d’obbedienza al Grande Reich, il tenente catanese si alzava in piedi e porgeva la mano al nuovo camerata: «Mi congratulo con voi di aver aderito alla giovane repubblica italiana». E il sottufficiale tedesco approvava gravemente col capo come per significare che l’Asse gioiva intimamente dell’avvenimento. Era la prima volta che vedevo un soldato italiano col nuovissimo emblema repubblicano del gladio incoronato di quercia. E sentii spaventosamente straniera quella divisa che pure era identica alla mia. E quel soldato, che pure apparteneva alla mia stessa terra, sentii straniero e nemico più ancora del tedesco che gli stava al fianco.

Giovannino Guareschi, Ritorno alla base, Milano, Rizzoli, 1989

Chi non aderisce sa che rischia molto.

Mi tornano in mente le pagine del diario di Giovanni Milanese in cui i compagni lo invitano ad accettare di lavorare -è ormai nel suo ultimo campo, a Wietzendorf- perché è denutrito e se lavorasse i tedeschi lo nutrirebbero di più.

Morire ma non optare, leggo inciso su una tazza proveniente dal lager lazzaretto di Zeithain:

Incisione di Mario Turi, marzo 1944

L'orgoglio dei 650mila internati italiani che non aderiscono emerge con chiarezza da queste due bandiere: 

Tricolore dal Lager di Mittelbau-Dora. Donato al Museo dal cav. Sisto Santin,
che lo definisce "il più caro dei ricordi, intessuto di rischi, di patimenti e di speranza

Tricolore dal lager di Dortmund
Commovente la vicenda di questo lembo di bandiera. Quasi un lembo d'Italia.
Lembo della Bandiera del 383.mo Rgt. Fant. Venezia

Il 9 settembre 1943 a Tirana, il comandante del 383.mo Reggimento Fanteria "Venezia" decide di distruggere la bandiera reggimentale, dividendola in tanti lembi. 

"Erano le 17, ed il momento fu indescrivibile: era per noi il distacco più angoscioso dalle nostre famiglie, dall'avvenire, da ogni speranza. Io ho avuto questo lembo, che ho riportato in patria facendolo sfuggire alle numerose perquisizioni operate nei Lager di Meppen, Versen Biala-Podlaska, Sandbostel, Wietzendorf", scrive Andrea Fiorini, tenente comandante la compagnia comando del 383.mo Reggimento Fanteria "Venezia", che ha donato al Museo dell'internamento il lembo da lui ricevuto.

In questa metafora del paese allo sbando che era diventata l'Italia nei drammatici giorni dopo l'armistizio, leggo lo sforzo di custodire i frammenti di un simbolo, per ricostruirlo insieme dopo la tempesta e continuare a indentificarvisi.

Sì, gli oggetti di un museo parlano.


Per approfondire:

Questo è il sito del Museo dell'Internamento di Padova:




Visita al Museo dell'Internamento di Padova, 2 -continua-

G.V.

21 luglio 2023

CAVALLI 8 UOMINI 40

Cavalli 8 uomini 40
Al Museo dell'Internamento di Padova leggo il cartello affisso alla riproduzione di un treno utilizzato per la deportazione dei soldati italiani nei campi di prigionia del Terzo Reich e mi accorgo che queste parole non sono solo quelle di un ritornello che ora non riesco a togliermi dalla testa. 
Sono l'unità di misura di un treno merci, l'unità di misura della deportazione.
Penso ai miei concittadini che sono stati su un vagone come questo, dal settembre al novembre del 1943 e poi nei mesi successivi fino alla liberazione, da un campo all'altro, a volte da un paese all'altro, in inverno e in estate. 
Da un anno e mezzo cerco notizie su di loro ma non ne conosco ancora il numero preciso; alcuni resteranno ignoti, anche con ricercatori meno improvvisati di me. 
Penso agli altri, 650 mila in totale: di quanti non resta memoria, già oggi? Trasportati su treni merci perché non erano più considerati uomini, per arrivare in un campo in cui non sarebbero stati considerati nemmeno prigionieri di guerra. 
Entrato nel vagone, leggo la testimonianza di un deportato:

Il vagone, nuda scatola nera, ci inghiotte. Qualcuno butta dentro una balla di paglia, giaciglio e sedile per 40 uomini. Siamo in 53. La porta si chiude sull'ultima luce del tramonto. Apro lo sportello di uno dei quattro pertugi, alti, senza vetri, sulle estremità delle opposte pareti.  [...] Ci stendiamo, due a due, una coperta sulle gambe piegate, l'altra sulle spalle e sulla testa. La candela viene spenta. La fiammella rapida di un cerino o di un accendisigaro dà risalto, ogni tanto, a quel grumo d'uomini curvi, imbacuccati nelle coperte, la testa cacciata fra le ginocchia. [...]. E' come lo squarciarsi saltuario di un velo nero su una scena bestiale, una specie di "rivelazione" che ognuno ha, attraverso la visione complessiva, della miseria propria. [...] Poi riattacca la strascicata sinfonia ferrata delle ruote, lo sbatacchiare dei ganci d'attacco, i cigolii della vecchia scatola che pare sfasciarsi. [...] Nevica, largo e fitto. Dentro, le pareti del vagone, sotto agli spiragli, alle fessure e ai buchi, sono coperte da grosse formazioni di ghiaccio.

Giuseppe Zaggia, Filo spinato, Venezia 1945 

La rivelazione della propria miseria, attraverso la visione complessiva di uomini ridotti ad animali: guardo gli altri e mi accorgo di non essere più nulla. È l'opposto del canto di Ulisse, in fondo: fatti non foste a viver come bruti.
Treno merci, uomini, cavalli: è come se qui dentro i confini fossero diventati indistinti.
Il mio maledetto vizio delle comparazioni letterarie mi riporta alla mente le pagine drammatiche in cui Levi accusa i tedeschi di "violenza inutile", cioè gratuita. Da quel capitolo mirabile, il quinto de I sommersi e i salvati, mi torna alla memoria una frase che riassume la lotta per conservare la propria dignità: non siamo ancora bestie, non lo saremo finché cercheremo di resistere.
Entro nel museo e mi colpiscono subito i plastici che riproducono alcuni campi.
Uno è quello di Sandboster, tra Brema e Amburgo. 
Ricordo che è uno dei campi di cui parla un mio compaesano, Giovanni Milanese, nel suo diario.
Leggo che dopo l'8 settembre 1943 ha ospitato 67 mila internati militari italiani; in totale, in sei anni, 300mila prigionieri di 67 paesi, impiegati nell'agricoltura o nell'industria bellica; 50mila di loro, si calcola, sono morti di fame, di malattia o per le violenze subite.
Su un altro campo ho un po' più informazioni: è il campo di Giovannino Guareschi, l'autore di Don Camillo e Peppone, il campo di Alessandro Natta, segretario del PCI dopo Berlinguer; per me, è soprattutto l'ultimo campo in cui è stato prigioniero Giovanni Milanese (dal novembre 1944 alla liberazione): è l'Offizierlager 83, a Wietzendorf, a 50 chilometri da Hannover.  
Leggo le brevi informazioni accanto al plastico e mi torna in mente il concetto di unità di misura. In ogni camerata erano alloggiati da un minimo di 52 fino ad oltre 90 ufficiali, ma i posti letto erano sempre 52 per cui gli esuberi dormivano sui tavoli o a terra. 
Comprensibilmente, Giovanni Milanese saluterà la liberazione con queste parole: "Sono di nuovo un uomo e non più un numero".

Per approfondire:
👉Rapporto sul campo 83 Wietzendorf, del tenente colonnello Pietro Testa

Il post del blog "la ràdica" dedicato alla liberazione di Giovanni Milanese dal campo di Wietzendorf:

Questo è il sito del Museo dell'Internamento di Padova:



Visita al Museo dell'Internamento di Padova, 1 -continua-
G.V.


16 luglio 2023

L'INVOLONTARIO ARTEFICE

Avevamo vinto, avevamo sacrificato il fior fiore della nostra gioventù [...]. Ci si contendevano i termini [=i confini] sacri della Patria e c'erano in Italia dei democratici la cui democrazia consiste nel fare l'imperialismo per gli altri e nel rinnegarlo per noi (applausi) che ci lanciavano questa stolta accusa semplicemente perché intendevamo che il confine d'Italia al nord dovesse essere il Brennero dove sarà fin che ci sarà il sangue di un italiano in Italia (applausi). Intendevamo che il confine orientale fosse al Nevoso [in Slovenia] perché là sono i naturali giusti confini della Patria e perché non eravamo sordi alla passione di Fiume e perché portavamo nel cuore lo spasimo dei fratelli della Dalmazia perché infine sentivamo vivi e vitali quei vincoli di razza che non ci lega soltanto agli italiani da Zara a Ragusa ed a Cattaro [in Montenegro] ma che ci lega anche agli italiani del Canton Ticino, anche a quegli italiani che non vogliono più esserlo, a quelli di Corsica a quelli che sono al di là dell'Oceano, a questa grande famiglia di 50 milioni di uomini che noi vogliamo unificare in uno stesso orgoglio di razza (applausi). 
[...] Noi italiani del secolo XX abbiamo veduto la grande tragedia del compimento nazionale, noi che portiamo nel profondo del nostro animo il ricordo di tutti i nostri morti che sono la nostra religione, noi o cittadini d'Italia facciamo un solo giuramento un solo proposito: vogliamo essere gli artefici modesti ma tenaci delle sue fortune presenti e avvenire.

E' il 3 aprile 1921, la domenica dopo Pasqua, e al Teatro Comunale di  Bologna si tiene l'adunata dei fasci emiliani. Le parole di Benito Mussolini, non ancora Presidente del Consiglio, sembrano già preannunciare un futuro di guerra che incombe sull'Italia: ci penserà il regime fascista a inculcare nelle menti e nei cuori degli italiani l'obiettivo di essere artefici della gloria della patria, a ogni costo, attraverso una politica espansionistica in nome dei "naturali giusti confini" e dell' "orgoglio di razza".

In quella stessa domenica a Valva nasce Domenico StrolloI genitori sono Francesco e Maria Giuseppa Cuoco.

La carriera militare

Il 4 maggio 1940 Domenico è dichiarato abile e arruolato.

Chiamato alle armi il 6 gennaio 1941, è assegnato al 43.mo Reggimento artiglieria in Africa Settentrionale, addetto al deposito munizioni e attrezzature; vi resta fino all'ottobre 1941.


Dai documenti risulta che la sua prima campagna di guerra è quella in Balcania: l'8 ottobre 1941, infatti, Domenico Strollo viene trasferito al 48.mo Reggimento artiglieria mobilitato in Montenegro, dove resterà fino al 29 agosto del 1942. 

Il Reggimento artiglieria "Taro" è un reparto della 48.ma Divisione di fanteria "Taro". Dopo la resa della Grecia, nell'aprile 1941, la Divisione è stata trasferita in Montenegro per presidiare il territorio e reprimere la resistenza locale.

L'occupazione italiana del Montenegro inizia con l'invasione del Regno di Jugoslavia, nell'aprile del 1941; nel luglio 1941 inizia un'insurrezione generale da parte della popolazione e dei partigiani comunisti. I rinforzi consentono al corpo di occupazione italiano di riprendere il controllo della situazione in circa un anno. I partigiani torneranno in Montenegro nella primavera del 1943, tanto da rendere necessario l'intervento delle truppe tedesche a sostegno della repressione italiana.  (fonte

La Divisione rientra in Italia nell'agosto 1942 -e infatti nel foglio matricolare di Domenico leggiamo la data del 29- e viene dislocata in Piemonte, nella zona di Alessandria-Novi Ligure, per poi trasferirsi in Francia a novembre (il 10, leggiamo nel foglio matricolare).

Domenico si trova nella Francia meridionale, a nord di Tolone, lungo la costa nella zona di Cuers, tra Mèounes-lès-Montrieux, Pierrefeu e Carnoules.

Nel 1943 la Divisione resta nella Francia meridionale, a presidiare la zona a nord di Tolone e a est del porto, fino a settembre.

L'Italia occupa la Francia meridionale tra il 1940 e il 1943, fino all'armistizio dell'8 settembre. La Divisione Taro è impegnata -nel XXII Corpo d'armata- nella difesa del cosiddetto Primo settore, che si estende dal lago di Ginevra sino a Bandol.  
I partigiani francesi approfittano della caduta del fascismo per attaccare le forze di occupazione italiana, che fino a quel momento hanno mantenuto una linea morbida; nuove disposizioni restrittive in materia di ordine pubblico non vengono realmente attuate a causa della fine dell'occupazione italiana. 
Il governo di Pietro Badoglio dà inizio al ritiro delle truppe, ridislocandole in Italia. Si prevede di lasciare truppe italiane solo nel saliente nizzardo compreso tra il confine e la linea Tinea-Varo. L'Italia si impegna a lasciare alla Germania il pieno controllo dell'area entro il 9 settembre.  (fonte)

In questa bella foto con i suoi commilitoni,
Domenico Strollo è con la camicia chiara, senza giacca.

La cattura e l'internamento in Germania

L'8 settembre 1943 viene reso noto l'armistizio firmato con gli Alleati e inizia una nuova fase della guerra.

L'8 settembre l'evacuazione delle truppe italiane non è ancora completata: circa 100mila uomini sono lasciati nelle mani dei tedeschi, che impegnano contro gli italiani tre divisioni con mezzi corazzati e motorizzati. Gli italiani cercano di resistere ma molti sono costretti alla resa. I soldati che riescono a evitare la cattura cercano di riorganizzarsi in territorio italiano, con un ripiegamento nella zona di Cuneo-Mondovì; l'11 settembre, però, dopo aver isolato il grosso delle truppe italiane, i tedeschi hanno già conquistato Torino, Alessandria, Asti, Alba, Bra e Vercelli.  (fonte) 

Domenico Strollo risulta fatto prigioniero dei tedeschi già il giorno 9. Come molti suoi commilitoni, inizia la deportazione in Germania, finalizzata al lavoro coatto.

Un altro valvese si trova in Francia in questi giorni, ma riesce a sottrarsi alla prigionia e trova ospitalità presso una famiglia borghese a Pianfei, in provincia di Cuneo: è Michele Cecere, che aderirà alla lotta partigiana dal luglio 1944 al giugno 1945.

Sappiamo con certezza che Domenico Strollo è prigioniero in Germania: risulta nello Stalag VI D, a Dortmund. 

Stalag VI, Dortmund; fonte

Sul sito di Ravizza Editore troviamo alcune preziose informazioni sullo Stalag VI. 
Dopo i bombardamenti del maggio 1944, nei quali persero la vita oltre cento prigionieri, le condizioni dei vita diventano catastrofiche: l'unico ingrediente dei pasti sono le patate. Il campo sarà completamente distrutto nei mesi successivi; verranno installate grandi tende (da 400 a 500 prigionieri) divise per nazionalità. 
Molti prigionieri riescono a fuggire, approfittando dei bombardamenti. Particolarmente grave il bilancio del bombardamento del 12 marzo  1945, che provoca moltissime vittime, anche a causa del divieto di accesso ai rifugi sotterranei della città di Dortmund per i prigionieri di guerra. 
Secondo un racconto orale raccolto dal nostro blog, anche il valvese Minente Figliulo è riuscito a fuggire in seguito a un bombardamento. 
I due compaesani si saranno incontrati nel campo?

fonte

Prigionieri di guerra nello Stalag VI; fonte

Il 7 aprile 1945 (oppure l'8 maggio, secondo altri documenti) Domenico Strollo viene liberato dalle truppe alleate, che lo trattengono fino all'11 agosto.

Il figlio Francesco ricorda che Domenico era impiegato in un'azienda agricola. Non siamo ancora riusciti a trovare documenti più precisi in merito.

Una geografia appresa in guerra

Soldato in Africa, poi impegnato su due fronti di guerra in Europa, infine internato militare in Germania: la geografia che Domenico Strollo ha imparato sui campi di battaglia e in quello di prigionia testimonia le conseguenze della politica espansionistica del regime fascista -già accennata in quelle lontane parole pronunciate, mentre egli stava nascendo, da Mussolini a Bologna- e la rottura dell'Asse, prodotta dall'armistizio dell'8 settembre 1943; una rottura che ha reso particolarmente duro l'atteggiamento dei tedeschi verso i soldati italiani. 

In questo significativo fotomontaggio, accanto a Domenico Strollo
ci sono due figli carabinieri: Mario (sx) e Francesco

Approfondimenti

Un video sulla presenza italiana nei Balcani: 1941: Italia in guerra- Fuoco nei Balcani

Il blog "la ràdica" ha dedicato il podcast IL GIORNO DOPO alle conseguenze dell'8 settembre 1943, dal punto di vista dei soldati valvesi; in particolare, Domenico Strollo viene citato nell'episodio 🎧La prima resistenza, terza parte; si veda anche il post 👉Otto valvesi prigionieri.

Alla figura del partigiano Michele Cecere il blog "la ràdica" ha dedicato diversi post:


Il blog Gozlinus ha dedicato un bel post a Mario Strollo, figlio di Domenico, tenente dell'Arma dei carabinieri. 

Un cordiale ringraziamento ai figli Gerardo, Mario e Francesco per la gentile collaborazione.

G.V.



12 luglio 2023

SI PUO' SEMPRE DIRE UN SI' O UN NO

Padova, è estate già da un pezzo.
Sono qui per visitare il Museo dell'Internamento ma una scritta attira la mia attenzione.
Non sapevo del Giardino dei Giusti del mondo, proprio di fronte al Tempio dell'Internato ignoto e al Museo, basta attraversare la strada.
È una scritta che ha l'efficacia assertiva e un po' sfrontata degli slogan, di quelli che non attendono repliche.

Non ci avevo mai pensato davvero. Anche quando sono con le spalle al muro, posso sempre dire un sì o un no. Posso accettare un compromesso e ripetere passivamente un sì o un no detto chissà quando; posso correre un rischio e pronunciarlo senza rete di protezione.
Questo è un luogo in cui si ricordano i Giusti, ma la frase -quella che non ammette repliche come uno slogan- può essere anche la chiave per entrare al meglio al museo e interpretate la scelta degli internati militari italiani.
Ho i versi di Montale in testa.
Sento che è un momento importante perché Montale non è un poeta da giorni feriali, non per me. Non li ricordo a memoria, ora che trascrivo le mie note di viaggio devo andarli a cercare. Non smetterò di sorprendermi leggendoli:

Dicono che chi abiura e sottoscrive
Può salvarsi da questo sterminio d'oche;
Che chi obiurga se stesso, ma tradisce
e vende carne d'altri, afferra il mestolo
anzi che terminare nel paté
destinato agli dei pestilenziali.

In classe li spiego così: dicono che chi ritratta e sottoscrive una dichiarazione o una confessione può salvarsi da questo sterminio di esseri indifesi ("oche"); dicono che chi rinnega se stesso e tradisce, denunciando i propri compagni, riesce  ad afferrare il mestolo invece di finire nel paté destinato agli dei della peste, le divinità del male. 
Montale parla in termini assoluti: la prigionia come allegoria, impiega immagini concrete per esprimere un dolore esistenziale; quello degli IMI è un caso di specie, ma non sono sicuro che sia una forzatura interpretare i versi del suo Sogno del prigioniero anche come un riferimento al NO pronunciato da 650mila internati militari italiani, alcuni dei quali ho conosciuto. 
Quando la poesia è alta, comprende anche i casi particolari.
Decido di visitare questo luogo della memoria.

La semplice grandezza del bene
Leggo i nomi. Alcuni li conosco, altri no ma mi incuriosiscono; leggo le loro storie o per meglio dire do un'occhiata rapida alle informazioni che scopro inquadrando il qr code.
Un luogo fisico e immateriale a un tempo. 
È molto fisico: ho i piedi nell'erba e per scattare una foto devo scostare un po' un ramo; è anche un luogo digitale, come se le storie fossero altrove, nello spazio che tutto accoglie, la grande piazza del mondo.
Leggo poche parole e colloco nello spazio e nel tempo l'azione dei giusti, la loro lotta spesso silenziosa contro i genocidi di ieri e di oggi. 
Leggo della Shoah, degli Armeni, della Bosnia, del Ruanda.
A rendere materiale la memoria, un albero e una semplice stele, con nome scritto per sottrazione di materia: come se dal vuoto, dal silenzio della storia, emergesse l'eco di un sì alla vita, di un no alla morte.
Mi fermo davanti al nome di Giorgio Perlasca.


Un magnifico impostore, di quelli che fanno atti di eroismo e ti chiedono: Tu cosa avresti fatto al mio posto? 
La sua storia è stata raccontata da un bel libro di Enrico Deaglio. Sempre più spesso, questa vicenda avvincente è raccontata a teatro, perché i giovani sappiano ciò che è stato e immaginino ciò che poteva essere se tutti. 
Mi rallegra e mi sorprende leggere accanto a quello di Perlasca questo nome:
Mi rallegra, perché Giovanni Palatucci era un uomo della mia terra, nipote del vescovo della mia diocesi. 
Mi sorprende, perché la sua vicenda è oggetto di un confronto storiografico per fare piena luce sulla sua figura, da alcuni studiosi messa in discussione. 
Bello trovarlo qui, così lontano dalla nostra terra. So che potrei parlargli nel mio dialetto e mi capirebbe. Casa è il luogo in cui rispondono al tuo dialetto.
Poco più in là, quasi a formare una triade di nomi a me cari, un dottore che a molti non dice ancora nulla:
Non era solo il papà di Piero e il nonno di Alberto (sarebbe già un merito): ha salvato ebrei nascondendoli con falsi ricoveri nel reparto di psichiatria da lui diretto in provincia di Torino.
Mi colpiscono due steli vicine: hanno lo stesso cognome, non può essere una coincidenza.
Non lo è.
Lei è stata un'intellettuale turca che ha denunciato il genocidio armeno, subendo processi e condanne.
Leggo le sue parole e mi sembra di ritrovare quelle di Perlasca.
Forse i Giusti, quelli che rischiano la vita e rinunciano alla libertà per fare del bene a persone che non sono della loro nazione o della loro religione, hanno un linguaggio comune. Forse è la lingua universale dell'umanità e non ha bisogno di traduzione:

Per quanto mi riguarda io ho fatto il mio dovere. Ho fatto qualche cosa che chiunque avrebbe dovuto fare. Non ho taciuto, ho parlato. Ho preceduto coloro che volevano parlare e mi sono assunta la responsabilità di quanto ho fatto, l'ho difeso ad ogni costo. 

Lei è Ayse Nur Zarakolu, deceduta nel 2002; il marito  Ragip, vivente, ha condiviso con la moglie la lotta per costruire un dialogo tra tutte le culture presenti in Turchia e per difendere i diritti umani.
Nemmeno di Giacomo Gorrini sapevo nulla.
Leggo che è stato ambasciatore italiano, uno dei principali testimoni oculari del genocidio armeno, che ha denunciato all'opinione pubblica italiana quando ancora la parola genocidio non esisteva (sarà coniata nel 1944).
Un'altra stele con più nomi mi colpisce:
Leggo "la storia di una salvezza e di un'amicizia".
Belli questi titoli: non saprei aggiungere né sottrarre una parola.
Elsa e Gino erano marito e moglie, Giuditta era la madre di Elsa: hanno ospitato una famiglia ebrea, quella del dottor Falck, in fuga dall'Istria e dalle persecuzioni razziali naziste. Dopo la guerra, le famiglie hanno continuato a vivere insieme come una sola famiglia.

Alberi, nomi e storie
Alberi per ricordare i giusti che si sono opposti allo sterminio, rischiando di far parte essi stessi dello sterminio.
Alberi e nomi, cone una sepoltura che ha ancora da dire ai vivi di oggi e di domani.
Alberi, nomi e storie di sì e di no, pronunciati senza calcolo per amore dell'uomo -o del dio- visto nell'altro.
Forse adesso posso attraversare la strada.

G.V.

05 luglio 2023

IL SOGNO AMERICANO INFRANTO SUL CIGLIO DI UNA STRADA

     Così remiamo, barche contro corrente, risospinti senza sosta nel passato.       

 F. Scott Fitzgerald, Il Grande Gatsby

A volte il sogno americano può infrangersi sul ciglio di una strada e la polvere copre le speranze riposte in un futuro agiato in una città industriale, come ad esempio la Kansas City che esplode di vita negli Anni Venti.

Quando nel dicembre 1922 Angelo Spiotta presenta la sua petition for naturalization, sicuramente ha in mente un altro avvenire. 

Vive nello stato del Missouri dal giugno del 1905, quando è arrivato negli Stati Uniti a bordo della nave Cretic.

Nella lista passeggeri sbarcati a New York il 7 giugno 1905  il diciottenne valvese Angelo Spiotta dichiara di avere con sé 25 dollari, di aver pagato il proprio biglietto di viaggio e di raggiungere a New York lo zio Filomeno Ferrante, che non abbiamo ancora identificato.
In un documento del 1908 Angelo Spiotta risulta residente a Kansas City, al 515 Forest Ave.

Nel censimento del 1910 Angelo Spiotta risulta residente con la famiglia della sorella Santina; si dichiara lavoratore dipendente in una stazione o tratta ferroviaria, sa leggere e scrivere.

Il capofamiglia risulta Nicola Cuozzo; oltre alla moglie Santina (ma nel censimento risulta "Sandra"), troviamo le figlie Lizzie (otto anni), Mary (sei) e i figli Samuel (tre) e Joseph (uno).

Nel 1914 inizia la Prima guerra mondiale.

In Italia, il fratello di Angelo -Michele, classe 1894, soldato del 148.mo Reggimento fanteria- cade nell'agosto 1915 in seguito alle ferite causate da una granata. Ci siamo occupati della sua vicenda con due post, nei quali abbiamo presentato la lettera che ne annuncia la morte da eroe e una sua lettera al padre, alla vigilia dell'inizio del conflitto.

Negli Stati Uniti, Angelo Spiotta si registra nelle liste di leva americane: è il settembre 1918. Da questo documento apprendiamo che ora risiede in Homes St. al numero 558, sempre a Kansas City. Una curiosità: risulta lampligher, incaricato di accendere e spegnere i lampioni per l'illuminazione pubblica. Non è ancora sposato: indica come parente più prossimo la sorella Santina.

E arriviamo alla domanda di naturalizzazione che abbiamo già citato. 

Angelo dichiara di essere un laborer (operaio), residente al 515 Forest Ave, come nel censimento del 1910: non sappiamo perché sia tornato ad abitare nella casa precedente.

Gli affidavit a sostegno della domanda sono firmati dal cognato Nicola Cuozzo e  da Louis Mazuch, un avvocato.

La richiesta di naturalizzazione viene respinta, ma esattamente due anni dopo, il 22 dicembre 1924, Angelo Spiotta risulta naturalizzato.

Angelo Spiotta muore il 5 luglio 1928 in seguito a un incidente stradale, come leggiamo nel suo atto di morte; il 9 luglio viene sepolto nel cimitero cattolico di Mount Saint Mary.

A Valva, il suo comune natale, c'è ancora la cappellina eretta per sua volontà, accanto alla chiesa della Madonna degli Angeli.
Come ci ricorda questa epigrafe, la cappella è un dono di Angelo alla popolazione valvese:

Ecco le due sorelle: si noti la diversità di abbigliamento; la minore indossa il tradizionale costume valvese da "pacchiana", la maggiore vive in America ed è vestita in maniera più moderna.

Inizio Anni Trenta: Santina e Maria Michela(la sorella vestita da pacchiana);
la bambina è la nipote di Maria Michela, Maria Spatola


G.V.

30 giugno 2023

DOMENICO, DALL' INSANGUINATA FRONTIERA

Domenico Del Monte nasce a Valva il 30 giugno 1890; è figlio di Michele e di Maria Cuozzo.

Nelle liste di leva risulta tre volte; il suo anno di leva infatti passa dal 1890 al 1892: ne possiamo dedurre che sia stato dichiarato rivedibile due volte. Il destino, si dirà.

Domenico è arruolato nel 30.mo Reggimento fanteria, che insieme al 29.mo costituisce la brigata Pisa.

Ecco in sintesi le vicende della brigata Pisa relative al 1915:

Da Potenza e da Nocera Inferiore, sedi di pace dei due reggimenti, la brigata Pisa inizia il trasferimento in zona di operazioni il 25 maggio [...] 
Il 25 giugno, durante la prima battaglia dell'Isonzo (23 giugno-7 luglio) la brigata si spiega alle falde del monte San Michele.  
Durante la seconda battaglia dell'Isonzo (18 luglio-3 agosto), la brigata rinnova gli attacchi contro il San Michele e nonostante gravi perdite riesce a conquistare alcuni trinceramenti sulle pendici occidentali del monte, fino a quota 170. 
Ai primi di agosto la brigata si trasferisce a San Vito al Torre per riordinarsi.

Ipotizziamo che Domenico abbia preso parte alle operazioni fin dall'inizio: è significativa la data del 25 maggio, il giorno dopo l'entrata in guerra dell'Italia. Di sicuro, a novembre Domenico si trova sul fronte di guerra, tra il fiume Isonzo e il monte San Michele, luoghi resi celebri dal fante poeta Giuseppe Ungaretti.

Riprendiamo la sintesi delle vicende della brigata Pisa e in particolare del 30.mo fanteria nel novembre 1915:

Il 1 novembre, mentre è nel suo pieno svolgimento la terza battaglia dell'Isonzo (18 ottobre-4 novembre), il 30.mo fanteria, inviato a Sdraussina, riceve l'ordine di attaccare in direzione del San Martino. 
Qui la brigata prende parte alla quarta battaglia dell'Isonzo (10 novembre-5 dicembre), avendo come obiettivo la conquista del tratto di fronte fra il trivio a sud del San Martino e la cappella di San Martino: l'assalto, più volte tentato con tenacia ammirevole nei giorni 10, 11 e 12 novembre contro la posizione detta "Il Groviglio" e contro il saliente detto "Dente del Groviglio", non dà alcun risultato a causa della resistenza accanita e del fuoco violentissimo del nemico.      
Le perdite subite dalla brigata in tali cruente azioni ammontano complessivamente a oltre 1000 uomini fuori combattimento, dei quali 38 ufficiali.   
L'attacco viene condotto con slancio, ma vano riesce ogni sforzo sotto il tiro micidiale dell'artiglieria avversaria. Nei giorni successivi la brigata  viene schierata nel settore di Bosco Cappuccio 
fonte 

Tra questi oltre mille uomini c'è Domenico Del Monte. Ignoriamo quando sia stato colpito colpito, ma sappiamo che muore l'11 novembre 1915, nell'ospedaletto da campo n. 79, per ferite riportate in combattimento.

Lascia la moglie Maria Michela Torsiello e un figlio di due anni, Michele.

Alla memoria di Domenico Del Monte dedichiamo questi versi scritti nella terra in cui egli è caduto; sono tratti da I fiumi, di Giuseppe Ungaretti, un celebre componimento nel quale il poeta prende spunto da un bagno nell'Isonzo per ripercorrere le fasi della sua vita attraverso fiumi per lui significativi. Non sappiamo se anche Domenico abbia avuto la possibilità di bagnarsi nell'Isonzo in un momento di tregua. Se lo ha fatto, forse avrà pensato all'acqua del suo fiume Sele, nella lontana Valva:

Valva, fiume Sele, foto di Valentino Cuozzo

Stamani mi sono disteso
In un'urna d'acqua
E come una reliquia
Ho riposato

L'Isonzo scorrendo
Mi levigava 
Come un sasso
Ho tirato su
le mie quattro ossa
E me ne sono andato 
Come un acrobata
Sull'acqua 

Mi sono accoccolato
Vicino ai miei panni 
Sudici di guerra
E come un beduino
Mi sono chinato a ricevere
Il sole

Valva, fiume Sele, foto di Valentino Cuozzo; l'effetto seta è creato da una lunga esposizione

Contrariamente a quello che capiterà a quasi tutti i suoi compaesani caduti in guerra, Domenico Del Monte riposa nel cimitero di Valva.

Ecco la commovente lapide posta nella tomba di famiglia:


A Domenico Del Monte
la cui gloriosa salma
dall' insanguinata frontiera
fu qui trasportata e sepolta
presso il padre suo Michele
con commossa ammirazione
ed imperituro affetto
come sciogliendo un voto
il fratello Donato

N. 30-6-1890                 M. 12-11-1915

Si noti che la data di morte riportata nell' epigrafe non coincide con quella nei documenti ufficiali.

Approdondimento

Abbiamo incontrato il Bosco Cappuccio nel post dedicato al fante Michele Spiotta, dal titolo In un declivio di velluto verde, un eroe silenzioso.

L'ospedaletto nl 79 era un ospedaletto da campo da cinquanta letti; qui trovate ulteriori informazioni

Ospedaletto da campo da cinquanta letti attendato; fonte


Un sentito ringraziamento per la gentile collaborazione a Carmen Del Monte, pronipote di Donato, fratello del soldato, e ad Annalisa Del Monte, pronipote di Michele, figlio del soldato.

G.V.

24 giugno 2023

L'AMARA TERRA PROMESSA DI UN FIGLIO DELL'ESODO

Il 21 maggio 1888, dalla nave Chateau Yquem (prima che venga ribattezzata Gallia) scendono 19 passeggeri valvesi. 

Una sorta di esodo verso una terra promessa, che si rivelerà però amara per alcuni di loro.

Ci siamo già occupati della storia di Sabato Fratangelo, il cui padre era su quella nave: nato in America, Sabato combatterà e morirà nella Grande guerra con la divisa dell'esercito italiano. Ecco il posto a lui dedicato: Sabato, nato in America e caduto in guerra da italiano.

Tre anni dopo lo sbarco, uno di quei valvesi, Angelo Maria Marciello diventa padre di un bambino, che è dunque cittadino americano.

Tony Marciello nasce il 1 aprile 1891. 

La grafia del cognome nei documenti americani è molto incerta; in uno egli si firma Marciello, ma il cognome compare quasi sempre senza la "i" e in alcuni casi addirittura si trova Marsello.

Sua madre è Elisa Grieco, arrivata negli Stati Uniti  il 10 giugno 1890, valvese anche lei ma partita dal porto di Marsiglia.

Nel 1910 Tony risulta residente a Buffalo, nello stato di New York, di professione laborer, operaio.

Si arruola il 25 luglio 1918, viene congedato il 9 luglio 1919; lo apprendiamo da questo documento, che è la richiesta per ottenere la lapide riservata ai veterani di guerra:

Non sappiamo se sia lui il giovane militare in licenza che sta trascorrendo dieci giorni con i suoi genitori in North Wayne Street, a New Castle (Pensylvania), in attesa di partire per la Francia, come leggiamo in questo trafiletto sul New Castle News del 28 agosto 1918. In effetti, Tony partirà il 31.

In realtà, è molto improbabile che sia lui, perché a quella data i genitori dovrebbero essere rientrati in Italia e perché non è chiaro il riferimento ai Medical Corps in Georgia, ma ci piace pensare che questo soldato sia lui e che gli abbia potuto trascorrere alcuni giorni sereni: forse gli ultimi davvero tali perché all'orizzonte sul suo destino si intravedono nubi che non se ne andranno.

Il 31 agosto 1918 Tony si imbarca a Hoboken; dichiara che il suo parente più prossimo è lo zio Mike Marsello (ma sarà Marciello anche lui), la sua unità militare è la 59th.Pioneer Infantry.

Il suo è un reggimento di fanteria istituito nel 1917 e assegnato alla 4a divisione di fanteria in Francia. E' lo stesso reggimento di un soldato valvese che ha scelto di arruolarsi come volontario nell'esercito americano: Amedeo Catino. Entrambi combattono nella zona di Verdun e questo causerà loro problemi di salute a causa dei gas inalati; Tony sarà ricoverato a lungo in un ospedale militare. 

Tony è trasportato in Francia e poi negli USA a bordo della stessa nave di Amedeo Catino, la Leviathan, di cui abbiamo presentato una descrizione nel post Due fratelli alla Grande Guerra in due eserciti differenti

Alla fine della guerra, Tony parte da Brest il 29 giugno 1919 e arriva a Hoboken il 5 luglio.

In guerra ha fatto carriera, visto che da questo documento appare Private First Class, un grado appena sotto il caporale nell'esercito statunitense:

Nel censimento del 1950 risulta never married (mai sposato), paziente al reparto di neuropsichiatria dell'US Veterans Hospital Canandaigura, Ontario (sempre nello stato di New York).

Tony muore il 15 ottobre 1972; viene sepolto cinque giorni dopo al Bath National Cemetery, nello Stato di New York.

"Per tutta la vita ha avuto problemi ai polmoni a causa dei gas respirati in trincea ed è deceduto in una casa di riposo per reduci. I miei parenti americani mi hanno raccontato che il feretro è stato accompagnato alla sepoltura avvolto nella bandiera americana con le note del silenzio", dice Cesare Bartolini, nipote di un fratello di Tony che purtroppo non ha mai conosciuto il fratello. "Tony era nato in America ed è vissuto lì, mentre mio nonno Salvatore è nato in Italia", spiega il signor Bartolini, che custodisce al gelosamente alcuni oggetti appartenuti allo zio d'America, come una radio e un orologio da taschino.

In un suo viaggio di ricostruzione della memoria della sua famiglia, Cesare ha visitato anche la tomba di Tony Marcello (alla fine ha prevalso la grafia senza la "i"), nel cimitero di Bath, a Steuben Country (stato di New York); eccola:

Il sogno americano ad alcuni chiede più di quanto concede.

Approfondimento

👉Le armi chimiche

Un sentito ringraziamento al signor Cesare Bartolini per la gentile collaborazione.

P.s. Documents and photos are taken by www.ancestry.com.

G.V.