25 aprile 2022

IL PARTIGIANO DI VALVA

Ci sono storie che non diventano racconto.

A volte questo accade per pudore o  per evitare di rievocare fantasmi che hanno tormentato notti insonni; accade per il timore di non essere creduti o magari perché ci sono persone destinate a guardare sempre avanti.

Michele Cecere non amava parlare del suo passato, eppure egli è sempre stato, a Valva, "il partigiano".

Forse è giunto il momento che la sua storia venga raccontata.

Il soprannome

Non tutti i soprannomi nascono per celia, per ricordare situazioni buffe o caratteristiche originali; alcuni sono impressi nella carne come ferite della giovinezza che restano per sempre.

Il senso pratico che fa nascere e mantiene vivi i soprannomi ha subito esteso "lu partigian" alla famiglia Cecere, ma senza particolari connotazioni storiche o politiche; è probabile che oggi in paese molti non sappiano che nel passato di zio Michele c'è davvero la lotta partigiana.

Combattente per la libertà

Ecco il suo Brevetto di Partigiano, rilasciatogli dal Corpo volontari della libertà:


Il documento presenta sei firme molto prestigiose, come dimostra la seguente -celebre- foto:

Il comando generale del Corpo volontari della libertà sfila nella Milano liberata. 
In prima fila ci sono, da sinistra: Mario Argenton, Giovan Battista Stucchi, Ferruccio Parri (poi Presidente del Consiglio), Raffaele Cadorna, Luigi Longo (poi segretario del PCI), Enrico Mattei (poi presidente ENI). 
Tutte queste persone hanno firmato il Brevetto di partigiano rilasciato a Michele Cecere.

La guerra del bersagliere Cecere
Come leggiamo nel suo foglio matricolare, Michele Cecere  partecipa a operazioni di guerra alla frontiera alpina occidentale dall'11 giugno 1940 (praticamente nei primissimi giorni di guerra) al 29 giugno 1940. È poi in azione alla frontiera greco-albanese dal  novembre 1940 al febbraio 1941, quando si ammala di pleurite.
Nel settembre 1941 rientra nel I Reggimento Bersaglieri a Napoli, l'anno successivo è in Francia.
"Naso greco, colorito bruno, dentatura sana"
si legge nei "Dati e contrassegni personali" di Michele Cecere 

Dopo l'8 settembre 1943, riesce a sottrarsi alla cattura e a ricongiungersi con un comando italiano; si rifugia "presso una famiglia borghese" a Pianfei, in provincia di Cuneo.

La lotta partigiana
Michele Cecere entra nella brigata partigiana Val Corsaglia-Val Ellero, in provincia di Cuneo.
Vi milita dal 7 luglio 1944 al 7 giugno 1945.
  
Michele Cecere, di Giacomo, nato il 5 maggio 1920 e deceduto nel 1993

Quali esperienze ha vissuto il partigiano Michele nei suoi undici mesi sulle colline piemontesi?
In un'epoca in cui, come scrive Fenoglio, i ragazzi come lui erano chiamati più a morire che a vivere, quali speranze guidavano le sue scelte, quali paure agitavano i suoi pensieri? 
Forse non lo sapremo mai, almeno non completamente.
Possa questo post essere un primo passo verso il recupero della memoria di un partigiano che non ha avuto paura di mettere a rischio la sua giovinezza per lottare per ciò in cui credeva.
Sarebbe bello rintracciare i discendenti della famiglia che ha ospitato Michele in fuga dalla Francia dopo l'8 settembre '43 e far incontrare in qualche modo due piccoli paesi che, pur essendo tanto lontani, hanno storie in comune che si sono intrecciate nella guerra e poi nell'emigrazione.


Un grazie riconoscente alla famiglia Cecere per la preziosissima collaborazione.


G.V.

24 aprile 2022

INTERNATI MILITARI IN GERMANIA: UNA SCELTA ANTIFASCISTA

In occasione del 25 aprile, il quotidiano Domani pubblica una serie di articoli per "dare voce a resistenze diverse", in modo da aiutare a comprendere le varie sfumature del complesso movimento della Resistenza italiana.
L'articolo di oggi, a firma di Silvia Pascale e di Orlando Materassi, è dedicato agli Internati militari italiani.
Silvia Pascale è una storica, Orlando Materassi è il presidente nazionale dell'ANEI (Associazione Nazionale Ex Internati nei Lager Nazisti).
Ecco ampi stralci del loro articolo pubblicato oggi; abbiamo evidenziato i punti a nostro avviso più importanti.

 

L’ALTRA GUERRA DEGLI INTERNATI MILITARI

La storia sconosciuta dei soldati italiani 
e della loro resistenza nei lager tedeschi

Gli Internati militari italiani, i soldati catturati dall’esercito tedesco dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, hanno scritto una pagina fondamentale della Resistenza e le loro storie sono una grande testimonianza di coraggio. Dopo l’annuncio dell’armistizio, circa 650mila soldati pagarono un prezzo altissimo: i reparti tedeschi li disarmarono e li catturarono nel nord Italia, ma anche in Grecia, Albania, Jugoslavia e sugli altri fronti, avviandoli alla prigionia nei territori del Terzo Reich, dove diventarono schiavi di Hitler, lavoratori forzati nella macchina bellica tedesca. I vertici tedeschi, infatti, avevano preventivato da tempo una possibile defezione italiana e appena ebbero conferma dei loro sospetti attuarono contromisure tempestive per invadere la penisola, prenderne il controllo e sfruttarne uomini e mezzi.

Cosa significa Internati militari italiani? Il 20 settembre 1943, poco prima della proclamazione del nuovo regime fascista della Rsi, un’ordinanza del Führer decretò che i soldati italiani fatti prigionieri vedessero mutare la loro condizione in “Internati militari”. La definizione di questo status era per Hitler particolarmente importante: l’obiettivo rimaneva infatti lo sfruttamento economico del paese occupato e il reclutamento dei soldati come forza lavoro.   [...]

La resistenza nei lager nazisti

Fondamentale in questa Resistenza fu la scelta dei soldati italiani: sbandati e privi di ordini dai vertici militari, lasciati al loro destino nei numerosi fronti di guerra da Badoglio fuggito a Brindisi con la Casa reale, non accettarono di aderire alla proposta che venne loro fatta di aderire a Hitler e a Mussolini.

I nostri militari ebbero fin da subito la possibilità di riacquistare la libertà e far ritorno a casa in cambio della loro adesione a continuare la guerra nei reparti della Wehrmacht o nel ricostituito esercito della Rsi. Rifiutarono ogni tipo di collaborazione con la Germania nazista e con la Rsi, scelsero volontariamente l’internamento conducendo la loro Resistenza senz’armi nei lager nazisti.

Erano parte di una generazione educata nel ventennio fascista al “Credere, obbedire, combattere”, eppure nel momento di dover decidere non esitarono, non rimasero indifferenti: rischiarono la propria vita opponendosi al nazifascismo.

Il loro rifiuto di collaborare delegittimò la Repubblica sociale sottraendo una forza consistente sia alla repressione fascista attuata contro le forze partigiane o impiegata negli eccidi di migliaia di civili, sia all’impiego bellico della Germania.

Una scelta antifascista che li sottopose al violento rancore tedesco obbligandoli al lavoro massacrante, alla fame, al freddo, a continui soprusi.

Un’altra guerra

Ben presto divenne chiaro che la decisione di sfruttarli come schiavi comportava molti problemi. La produttività degli Internati militari si rivelò assai inferiore alle aspettative, a causa delle cattive condizioni alimentari, del trattamento umiliante, dei compiti spesso assegnati senza tener conto delle competenze dei lavoratori, delle istruzioni insufficienti.

Inoltre, la detenzione dietro il filo spinato e le pessime condizioni di lavoro nell’industria pesante o nelle miniere, facevano spaventosamente crescere il numero degli ammalati. Negli ultimi mesi di guerra le condizioni di vita degli Imi utilizzati come lavoratori peggiorarono in modo drammatico, soprattutto nelle zone urbanizzate: i bombardamenti degli Alleati costituirono un pericolo anche per gli italiani e il sistema di rifornimento andò in tilt completamente. A questo s’aggiunse la durezza dell’inverno 1944-45. Il numero di morti e malati era alto. Non pochi furono uccisi perché scoperti a rubare qualcosa da mangiare. La Gestapo fu autorizzata a giustiziare sommariamente i lavoratori sorpresi a rubare o che tentavano la fuga o atti di sabotaggio.

Gli Imi combatterono, quindi, un’altra guerra. Una guerra senz’armi, fatta di resistenza alla fame, al freddo, alle violenze e al lavoro coatto, alla sopraffazione fisica, morale e spirituale.

Questi 650mila erano uomini che avevano vissuto il fallimento del regime fascista in cui erano cresciuti, la misera fine delle guerre di Mussolini, lo sfacelo delle forze armate dopo l’8 settembre.

La disinformazione fascista

La grande maggioranza di loro preferì la prigionia agli appelli a passare dalla parte di Hitler. Rimane un caso unico la scelta di massa di questi militari italiani. Una lezione preziosissima tuttora. A settantasette anni di distanza dalla fine della Seconda guerra mondiale avvenuta con la sconfitta del nazismo e del fascismo vi è la necessità di rafforzare la memoria storica di quel periodo per non disperdere i valori e le scelte che spinsero tanti giovani a opporsi alle due dittature, in particolare dopo l’8 settembre 1943, dando vita a una lotta resistenziale, che, seppur nella diversità delle azioni, contribuì alla disfatta del nazifascismo in Italia e in Europa. Il loro status di Imi fu facile argomento di disinformazione da parte della stampa fascista volendo far credere che la loro permanenza nei territori del Terzo Reich fosse dovuta alla volontaria disponibilità di lavoratori all’interno della macchina bellica nazista. Così non fu. La loro prigionia, diversa da quella degli altri deportati, assume la connotazione di Resistenza perché in ogni momento potevano dare la loro adesione alla Rsi.   [...]

Dopo la liberazione

Ma il loro calvario non terminò nemmeno con la liberazione perché il loro rientro fu difficile e non organizzato: dagli angloamericani furono censiti come displaced persons, come dei profughi, tornarono dopo molti mesi e a volte con mezzi di fortuna. Dopo il ritorno dalla prigionia e per decenni, se non per tutta la vita, subiranno il trauma delle sofferenze e delle violenze subite [...]

Al rientro, la disinformazione della stampa fascista aveva generato nell’opinione pubblica la disconoscenza della scelta che avevano fatto, configurandoli molto spesso come collaborazionisti, generando difficoltà di reinserimento nel lavoro, nelle relazioni sociali e politiche, nei rapporti umani e familiari, in un paese colpito profondamente dalle sofferenze, dalle violenze, dalle morti generate dalla guerra.

La loro storia di volontari combattenti per la libertà d’Italia rimase colpevolmente nell’oblio per diversi decenni, benché fossero uniti idealmente a coloro che avevano combattuto in armi per rendere dignità a una nazione nel consenso internazionale.

Soltanto alla fine degli anni Ottanta gli storici hanno sottolineato l’importanza del contributo dato alla Resistenza degli Imi, e oggi vi è la necessità e la determinazione di rendere viva una cultura di Memoria condivisa: la loro vicenda deve finalmente avere pari dignità nella Storia della Resistenza, alla quale hanno contribuito per un’Italia repubblicana, libera e democratica.


Bibliografia

Ecco due testi degli autori dell'articolo:

Una scelta antifascista

La memoria legata al filo rosso

 

G.V.

19 aprile 2022

I RACCONTI DI ZIA PASQUALINA

La nonna dei valvesi, zia Pasqualina Cuozzo, è nata il 6 settembre 1920.

Ama raccontare episodi della sua giovinezza e questo la rende una straordinaria testimone della vita del nostro paese.

Suo padre Michele aveva combattuto la Prima guerra mondiale e sarebbe morto quando il suo ultimo figlio aveva ancora pochi mesi.

Una famiglia di emigranti

È possibile che sia lui il Michele Cuozzo di Valva che risulta sbarcato negli USA nel 1909, diretto a Buffalo dal cugino Pasqualino Figliulo.

Zia Pasqualina ricorda che suo padre è stato due volte in America e che al rientro a Valva acquistava terreni.

La strada dell'emigrazione sarebbe poi stata percorsa anche da un fratello e da una sorella di zia Pasqualina (in Venezuela e Argentina). 

Racconti di guerra

Zia Pasqualina acconta che durante la guerra la sua famiglia e altre due si erano rifugiate in una sorta di grotta in contrada Molinello; mangiavano gli ortaggi che riuscivano a coltivare, soprattutto patate, più facili da conservare.

Un episodio che ama ripetere è legato proprio alle patate: lei stava preparando il pranzo e per lo spavento dovuto allo scoppio di una bomba le cadde tutto l'olio nelle patate, ma non potendosi permettere di buttare nulla mangiarono tutto lo stesso.

Il fidanzato Pasquale, che sarebbe poi diventato suo marito, partì per la guerra, in Libia.

Purtroppo zia Pasqualina non ricorda notizie su altri valvesi in guerra, anche perché vivendo in campagna raramente saliva in paese, dove andava solo per prendere l'olio.

Racconta spesso un aneddoto legato alla fine della guerra: all'arrivo degli americani a Valva, un giorno lei teneva per mano il suo fratello più piccolo; alla vista di un carro armato, il bambino mostrò subito curiosità e fu fatto salire, ma lei era spaventatissima perché non sapeva che fossero gli americani. Poco dopo uscì il fratellino, "cu lu muss spuorc d ciucculata". Capì che erano soldati "amici" e quella fu la prima volta che i due mangiavano cioccolata.

La musica nel sangue...e nell'atto di nascita

Una curiosità.

Tra i testimoni che firmano l'atto di nascita di zia Pasqualina c'è un giovane "musicante", Michele Freda.

Anche il padre di zia Pasqualina, da autodidatta, si dilettava con la musica e teneva lezioni ai ragazzi di Valva, accontentandosi di un po' d'olio per accendere la lampada.

In paese ricordiamo che zia Pasqualina faceva parte del coro in occasione dell'ordinazione sacerdotale di don Virginio Cuozzo.

Un suo cavallo di battaglia sono le filastrocche che imparava a scuola (ha frequentato fino alla terza elementare) e, immaginiamo, nelle serate in famiglia accanto al fuoco.

Ce ne occuperemo nei prossimi post, perché tutto quello che una persona di oltre cento anni ricorda merita la precedenza anche rispetto alle ricerche d'archivio per il quale questo blog è nato.

Le persone anziane sono radici che sostengono la comunità anche con la parola e con il ricordo ed è nostro dovere ascoltarle, con rispetto e riconoscenza.

G.V.


Un sentito ringraziamento alla nipote Michela Torsiello per la preziosissima collaborazione.



16 aprile 2022

GIACOMO, CADUTO PER PRIMO

Giacomo Cuozzo è caduto prima di tutti gli altri, è caduto in Spagna, è caduto per dare da mangiare alla sua famiglia.

Valva ha avuto un suo figlio morto nella Guerra civile spagnola, "laboratorio" di ideologie e di alleanze militari (ad esempio quella tra Germania e Italia), funesta anteprima della Seconda guerra mondiale (si pensi al tristemente celebre bombardamento di Guernica).

Picasso, Guernica, Museo Reina Sofia, Madrid; fonte

Quella spagnola è stata, in un certo modo, anche una guerra civile italiana.

Quasi 60mila soldati (80mila secondo altre fonti) vengono inviati da Mussolini a sostegno del generale Francisco Franco: costituiscono il Corpo truppe volontarie (Ctv), ma in realtà ufficiali e soldati sono attratti dalla paga. 

La guerra come carta della disperazione: soprattutto nelle aree più povere d'Italia, questa carta è stata giocata. Che la possibilità di riscatto sociale ed economico dei ceti più poveri passi attraverso la guerra, rende ancora più ingiusta la loro condizione e più terribile la guerra stessa.

Sull'altro fronte, a sostegno del governo repubblicano, giungono dall'Italia tremila volontari. Tra di loro, alcune figure di spicco dell'antifascismo e di quella che sarà poi la Resistenza: Carlo Rosselli, Emilio Lussu, Luigi Longo, Giuseppe Di Vittorio, Palmiro Togliatti, Pietro Nenni.

In più occasioni gli italiani degli opposti schieramenti si scontrano; triste emblema, la battaglia di Guadalajara, definita "una guerra civile all'interno della guerra civile". Essa segna una vittoria dell'antifascismo, non decisiva ai fini dell'esito della guerra ma importante dal punto di vista simbolico.

Nella Guerra civile spagnola cadono circa quattromila soldati italiani, tra cui Giacomo Cuozzo.

Giacomo era nato a Valva, nel 1908, da Donato e Virginia Spiotta.

I nomi dei nonni che si rinnovano nei nipoti sono spesso un filo per orientarsi nel labirinto dei registri anagrafici: in un piccolo comune, aiutano a individuare le persone. Non è stato dunque difficile ricostruire la parentela di Giacomo Cuozzo; un nostro concittadino, infatti, porta il suo nome: è suo nipote, nato pochi anni dopo la sua morte (avvenuta nel 1937).

Saragozza, Sacrario militare italiano; fonte

Per approfondire

La Guerra civile spagnola:

https://www.raicultura.it/storia/articoli/2020/03/La-guerra-civile-spagnola-d3fea747-0276-4f69-a19a-82a634036c9c.html

https://www.raiplaysound.it/audio/2013/07/Loris-Zanatta-racconta-la-guerra-civile-spagnola---Wikiradio-7714b220-2ede-442e-9fe9-fad99be6e084.html

I contingenti italiani:

http://www.regioesercito.it/reparti/mvsn/mvsnspa36.htm


G.V.


10 aprile 2022

Sabato, nato in America e caduto in guerra da italiano

Tra i cognomi non più presenti a Valva, ce n'è uno che se n'è andato in America: lo ha portato un valvese che a diciotto anni era già cittadino americano (come si evince dal documento di sbarco a Ellis Island). 

Sabato, nato negli USA e caduto in guerra in Italia

Suo fratello, nato negli Stati Uniti, qualche anno dopo sarebbe tornato in Italia a combattere durante la Prima guerra mondiale: Sabato Fratangelo, classe 1895, calzolaio, settimo nome tra quelli dei soldati caduti sul campo, incisi sulla lapide del Monumento ai Caduti. Il tempo ha cancellato la prima e l'ultima lettera del suo nome, ma la sua storia merita di essere raccontata.
Sabato nasce a Piffard, negli Stati Uniti, il 10 agosto 1895, da Francesco e Filomena Spiotta.
L'Italia lo chiama alla visita militare e poi a combattere nella Grande guerra. 
Sabato cadrà in guerra, sul Carso, il 19 novembre 1915, combattendo con il 21°Reggimento Fanteria.

Elenco dei valvesi caduti nella Prima guerra mondiale, Monumento ai Caduti, Valva

Una famiglia di emigranti
Quando sono arrivati negli Stati Uniti i suoi genitori?
Il 1 gennaio 1888, due italiani di nome Francesco Fratangelo sbarcano negli USA, a bordo della nave Chateau Queen: il primo ha 27 anni, il secondo 29. Non abbiamo notizie sul luogo di nascita e di residenza in Italia. Non possiamo escludere un errore.
Ancora più difficile individuare l'arrivo in America di Filomena Spiotta: è registrata una donna con questo nome, ma di 60 anni e risulta sbarcata nel dicembre 1900: dunque non può essere la madre di Sabato.

Fratello e sorella

Sabato aveva un fratello più grande, di nome Alfredo.
Alfredo Fratangelo risulta sbarcato nel 1910, a diciotto anni; ultimo luogo di residenza: Valva; c'è un dettaglio che colpisce, alla voce "Ethnicity": "US Citizen".
Alfredo sembra diretto a Pittsburg, se leggiamo correttamente l'indirizzo vergato sul registro di sbarco, disponibile on line sul sito della The Statue of Liberty - Ellis Island Foundation.

 fonte

Una curiosità: nella riga successiva a quella che riporta la destinazione di Alfredo, ci sono alcune informazioni relative a un altro valvese, suo compagno di viaggio, di nome Gerardo Freda,  che va da Amodio Freda a Newark.
Sia Gerardo sia Amodio Freda risultano tra i nomi dei valvesi promotori della serata organizzata dalla comunità valvese di Newark per raccogliere fondi in vista della costruzione del monumento ai Caduti in guerra a Valva, nel 1924.
Qui trovate il post che Gozlinus ha dedicato a quella serata.
Due anni dopo l'arrivo di Alfredo, risulta sbarcata anche Olimpia Fratangelo; ha 22 anni, è single. E' verosimile che sia la sorella, perché nell'indirizzo di destinazione, a Pittsburg, compare il nome Filomena, preceduto da "mother" (madre).
Insieme a Olimpia viaggiava un'altra ragazza valvese, Filomena Cozza.

Le valvesi Olimpia e Filomena sono alle righe 26 e 27  Fonte

Restano alcuni dubbi.
Ad esempio, come mai Alfredo era tornato in Italia? Era comunque tenuto alla visita militare?
Sulla sua nave, la Hamburg, ci sono altri sei valvesi (uno, Pietro Falcone, risulta cittadino statunitense).
Magari, incrociando le informazioni sugli altri passeggeri, potremo scoprirne di più.
La ricerca continua!


G.V.




26 marzo 2022

UNA LETTERA DAL FRONTE RUSSO

Una lettera può essere la chiave d'accesso al mondo di una persona e costituire un'occasione preziosa di conoscenza storica. 

In particolare, una lettera dal fronte è un documento straordinario che si presta a più livelli di lettura.

Il primo, è quello immediato: tentativi di rassicurare la famiglia, informazioni pratiche sulla corrispondenza, saluti affettuosi.

A un livello successivo, essa è anche una testimonianza: riproduce un mondo e la sua mentalità, ci dà informazioni per ricostruire il contesto in cui si sono svolti gli eventi, ci fa entrare in contatto con un passato che sentiamo lontano ma del quale ci giunge l'eco.

La lettera che pubblichiamo viene dal fronte russo, scritta da un giovane soldato della divisione Vicenza che sarebbe morto meno di due mesi dopo: Raffaele Cuozzo

Eccola, nella sua semplice essenzialità: senza trascrizione del testo, senza interpretazione delle parole meno comprensibili, senza commento o quello che con un po' di enfasi potrebbe chiamarsi apparato critico.

Nei post successivi cercheremo di interpretarla e analizzarla, ma è giusto che la prima lettura sia personale e diretta.

E' una voce che giunge dal fronte russo e parla a ciascuno di noi.





Grazie a Norma e Michelino Caldarone per aver messo a disposizione di tutti un prezioso cimelio della loro storia di famiglia.


Sulla storia di Raffaele Cuozzo:

https://radicivalvesi.blogspot.com/2022/03/raffaele-che-non-e-mai-tornato-dalla.html



G.V.

23 marzo 2022

LA PACCHIANA CHE CHIUSE DIETRO DI SÉ UN MONDO INTERO

La guerra la fa Ulisse ma non è facile essere Penelope.

Le donne la combattono nei campi, sostituendo le braccia dei mariti, dei fratelli, a volte anche dei padri; o meglio: continuando a fare il lavoro che già facevano prima ma facendolo da sole. Le donne la combattono in casa, allevando figli e tirando avanti ogni giorno, con carattere e speranza.

Le immagino così le ragazze e le donne che attendono il ritorno del loro uomo dal fronte o dalla prigionia.

Nelle lettere dal fronte, sono evocate con pudore se fidanzate, con delicatezza se sono madri, con rispetto se sono nonne, con simpatia se zie e comari. Molti soldati non sono ancora sposati. 

In guerra, scrive De André in una delle sue più celebri canzoni con parole che graffiano l'anima, "a crepare di maggio ci vuole tanto, troppo coraggio". 

Morire di maggio, metafora per indicare la giovane età dei caduti.

La guerra di Ulisse e di Penelope, dunque.

Oggi voglio ricordare una donna che ha avuto il marito al fronte e che rimarrà un simbolo per tutta Valva: la nostra ultima "pacchiana", zia Pasqualina.

Zia Pasqualina Torsiello vestita da pacchiana,
con in testa lu varlirə 

Non amo il termine pacchiana usato in italiano, perché vi vedo la spia linguistica di un pregiudizio di classe. 

L'accezione negativa con la quale l'aggettivo è rimasto incagliato nelle reti della nostra lingua mi sembra ingiusta: "privo di buon gusto e di stile, vistoso, grossolano", scrive il dizionario Treccani. Sullo stesso dizionario, il termine è presentato prima come sostantivo, di area meridionale: "contadino, villano; per lo più al femminile, contadina nelle vesti tradizionali, colorate e vistose".

Quando penso al termine dialettale, invece, mi si apre un mondo straordinario, un patrimonio di cultura e di affetto. 

Le vistose e tradizionali vesti della tradizione contadina appartengono alla nostra cultura in modo profondo, costituiscono un elemento della nostra "ràdica", sono un elemento di identità non solo per le donne che le indossano e che le indossano anche quando nessun'altra lo fa: zia Pasqualina sembrava vivere in un tempo sospeso, testimoniato e reso presente.

Giorno di festa

Queste vesti sono un elemento di identità anche per la comunità intera, perché il modo di vestire è una delle prime cose che notiamo in una persona e che ricordiamo di lei quando non c'è più; sono un elemento di identità collettiva perché un abito tradizionale (non amo definirlo costume: non siamo a teatro, non siamo a Carnevale, siamo nella vita vera delle persone e delle storie) ci ricorda da dove veniamo e, dunque, anche un po' chi siamo.


Zia Pasqualina con un vivace maccaturə

Zia Pasqualina se ne è andata, coi suoi vestiti da pacchiana, il 23 marzo del 2010.

Ci sono persone, scrive Erri De Luca, che morendo chiudono dietro di loro un mondo intero. A distanza di anni se ne accetta la perdita solo concedendo che in verità morirono in tempo.

Ecco perché zia Pasqualina appartiene a tutti noi.


Un grazie alla nipote Stefania per l'affettuosa collaborazione


G.V.

19 marzo 2022

RAFFAELE, CHE NON E' MAI TORNATO DALLA RUSSIA

A maggio non compirà cento anni, perché quando ancora non ne aveva ventuno è risultato disperso in Russia, durante la ritirata.

Raffaele Cuozzo, di Michele e Spiotta Maria Michela, è nato a Valva il 13 maggio 1922.

Il 9 maggio 1941, insieme a molti suoi concittadini, viene dichiarato abile e arruolato; nel gennaio del 1942 è chiamato alle armi. 


Al comune di Valva risulta disperso in Russia il 23 gennaio 1943, mentre nella banca dati del Ministero della Difesa la data è il 31 gennaio, in una località ignota. Anche il documentato sito dell'Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia riporta la data del 31 gennaio.

Entrambe le date, comunque, rientrano nel periodo della ritirata dell'armata italiana.

La campagna di Russia

Nell'estate del 1941 il corpo di spedizione italiano in Russia parte per il fronte; è impiegato in territorio ucraino.

Nella primavera del 1942 arriva in Russia l'Ottava Armata, chiamata ARMIR (Armata Italiana in Russia).

Raffaele Cuozzo che fa parte del 156.mo Battaglione Mitraglieri; la sua compagnia è distaccata a Cervignano, in provincia di Udine, come dimostra questa cartolina da lui inviata alla famiglia.

Dal timbro postale vediamo che nel giugno 1942 Raffaele è ancora in Italia. 

Alle truppe italiane in Russia viene affidata la difesa del fronte sul Don. 

La ritirata 

La controffensiva russa inizia nell'agosto 1942.

Pochi giorni prima del Natale del 1942 viene dato alle truppe italiane l'ordine di ripiegare: inizia così la drammatica ritirata dell'Amir. 

A metà gennaio 1943, sul Don avviene lo sfondamento decisivo da parte delle truppe russe: il Corpo d'Armata alpino e la Divisione Vicenza si sfasciano; sono costretti ad attendere nelle loro posizioni perché l'ordine di ripiegamento, che deve giungere dal comando tedesco, non arriva. 

Nei durissimi scontri di Varvàrovka, il 156.mo Battaglione Mitraglieri subisce perdite molto gravi, insieme al 156.mo Battaglione Misto Genio e al 278.mo Reggimento Fanteria della Divisione (quasi completamente annientato). 

Il 26 gennaio, in piena ritirata, avviene la sanguinosa battaglia di Nikolajewka: muoiono dai quattro ai seimila soldati. 

La rotta si conclude il 31 gennaio, quando la Divisione Tridentina raggiunge i primi avamposti tedeschi a Sebekino. 

Le cifre ufficiali delle perdite durante la battaglia sul Don e la ritirata parlano di quasi 85 mila militari indicati come "dispersi", oltre a 30 mila feriti e congelati che riuscirono a rientrare. 

Dei dispersi, solo diecimila faranno ritorno in Italia dopo la guerra. 

Ritirata, fonte

Nei prossimi post torneremo sulla Campagna di Russia, che ha visto un altro valvese disperso, Prospero Annunciata, e alcuni reduci. 

Anche nei comuni della Valle del Sele ci sono stati diversi dispersi in Russia. Ad esempio, Carmine Vernino di Colliano Rufolo Gerardo di Oliveto Citra erano nello stesso reparto di Raffaele e risultano dispersi lo stesso giorno.

Approfondimenti

Orrore bianco -La campagna di Russia 1942-1943, documentario di Agostino Pozzi, prodotto da Rai Storia

Una puntata di Passato e presente dedicata alla ritirata di Russia

Ritorno sul Don: la campagna di Russia raccontata dai reduci, articolo di Focus.it https://www.focus.it/cultura/storia/ritorno-sul-don-la-campagna-di-russia-raccontata-dai-reduci


Un sentito ringraziamento alla nipote Norma Caldarone, che ha fornito materiale prezioso.

G.V.


17 marzo 2022

Valva e l'Unità d'Italia

Il corteo reale all'apertura del Parlamento del Regno d'Italia; fonte

Mi piace pensare che Lorenzo Cuozzo fosse il nonno di mio nonno.

Sicuramente un mio trisavolo si chiamava così, ma quello che ho in mente io è nato il 26 febbraio 1861, di professione pastore; suo padre si chiamava Francesco, sua madre Domenica Strollo.

Penso a lui oggi perché dalle liste di leva dell'Archivio di Stato di Salerno risulta l'ultimo valvese maschio nato prima della proclamazione ufficiale del Regno d'Italia, avvenuta il 17 marzo 1861.

Un mio antenato, nato prima che l'Italia fosse.

Michele Spiotta, di Giovanni e Raffaela Falcone, è invece il primo maschio nato a Valva nel Regno d'Italia.

All'Unità d'Italia anche Valva ha dato il suo contributo di sangue; cinque morti prima del 1861, altri ventiquattro nella Seconda e Terza guerra di indipendenza.

Da un post di Gozlinus, ricaviamo la seguente lista di valvesi caduti durante le tre guerre del Risorgimento italiano:

Campagna del 1860 (conquista del Sud da parte di Garibaldi)

1. Civo Francesco di Felice                            Soldato

2. Feniello Giuseppe di Luigi                         Soldato

3. Gigantiello Rocco di Vitale                        Soldato

4. Marcelli Ludovico di Saverio                     Soldato

5. Strollo Michele                                           Appuntato

Campagna del 1866 (Terza Guerra d’Indipendenza)

1. Alfano Saverio                                              Tamburino

2. Corona Martino di Vito                                Soldato

3. Cozza Francesco di Pasquale                         Soldato

4. Cuozzo Antonio di Giuseppe                        Soldato

5. Cuozzo Domenico di Orazio                        Soldato

6. Cuozzo Donato di Pietro                              Soldato

7. Del Giglio Antonio                                       Soldato

8. Falcone Giuseppe di Amato                          Soldato

9. Falcone Giuseppe di Vito                             Soldato

10. Feniello Alfonso di Giacomo                        Soldato

11. Feniello Antonio di Francesco                      Soldato

12. Feniello Michele di Pasquale                        Soldato

13. Figliulo Michelangelo                                  Soldato

14. Grippo Donato di Carmine                          Soldato

15. Spatola Michele di Onofrio                          Appuntato

16. Spiotta Angelo di Raffaele                            Appuntato

17. Spiotta Antonio di Giacomo                        Appuntato

18. Spiotta Michele di Alessandro                      Appuntato

19. Strollo Mario di Pietro                                 Appuntato

20. Strollo Pasquale                                            Appuntato

21. Torsiello Michele                                         Caporale

22. Torsiello Michele di Pietro                           Soldato

Campagna del 1870 (detta anche Campagna di Roma, che si chiuse con l’annessione della città allo Stato italiano)

1. Spiotta Orazio di Giovanni                          Appuntato

2. Strollo Giovanni Battista*                            Appuntato

* Partecipò anche alla campagna del 1866


La fonte consultata da Gozlinus è il volume Combattenti per l'Indipendenza Italiana della Provincia di Salerno, a cura di Romolo Amilcarella.

G.V.

09 marzo 2022

I CENTO ANNI DI UN CAVALIERE

Un cognome che testimonia la stagione in cui l'azienda agricola del marchese d'Ayala attirava a Valva lavoratori stagionali che spesso provenivano dalla Puglia.

Santovito è un cognome tarantino, uno di quelli che sono rimasti in paese anche dopo la stagione dei marchesi.

Finita la Prima guerra mondiale, nella quale aveva combattuto nei "Cavalleggeri di Saluzzo", Cosimo Santovito sposò Pasqualina Cuozzo: il cognome più diffuso a Valva che si intrecciava a uno dei "forestieri".

Cosimo e Pasqualina sono i genitori di Enrico Santovito, che oggi compie cento anni.

Una foto di zio Enrico militare, a Pinerolo (1942)

Nell'atto di nascita di zio Enrico troviamo una curiosità, segno d'altri tempi. E' l'annotazione di un errore: il cognome della madre risulta Falcone, ma "deve leggersi ed intendersi per Cuozzo", come stabilito dal tribunale di Laviano nell'agosto 1947, poche settimane prima del matrimonio dei giovani Enrico e Rosina.

E' nato un bambino di sesso mascolino che egli mi presenta e a cui dà il nome di Enrico
(Atto di nascita)

Tra la nascita e il matrimonio, la dura esperienza della guerra in Albania e quella della prigionia, di cui parleremo nei prossimi post.

Ne parleremo perché quando le esperienze diventano racconto arricchiscono un'intera comunità, ma oggi è il giorno della festa, questo è il momento degli auguri a uno degli ultimi soldati della Seconda guerra mondiale ancora viventi: la sua voce ancora riesce a trarre dalle pagine del romanzo della sua vita frammenti di ricordi, che ha donato tante volte ai figli, ai nipoti, agli amici.

Tre valvesi soci dell'Associazione Arma di Cavalleria
deceduti nel 1971 (Cosimo Santovito è nella foto centrale)

Come frasi augurali, gli dedichiamo il motto delle "Guide", il suo reggimento, e quello dei "Cavalleggeri di Saluzzo", nei quali ha combattuto suo padre: Alla vittoria ed all'onor son guida e Quo fata vocant (Dove chiama il destino).

Perché ci sono cavalieri che lo sono non solo per aver combattuto nei Cavalleggeri.


Un grazie riconoscente alla nipote Rosanna per la preziosa collaborazione.

G.V.





05 marzo 2022

"Pacchisti" e "magroni": l'ossessione della fame

Oggi dopo aver mangiato una consueta orribile "sbobba" di cavolo rapa mi sono deciso ad iniziare a scriverti questa lettera per parlarti un po' della mia vita perché tu sappia un giorno, quando capirai, quanto e come papino abbia sofferto nella sua lunga e durissima via crucis. Questa descrizione oltre a non essere completa (ci vorrebbe troppo tempo e carta per dirti tutto) non ti darà neppure una pallida idea della vita bestiale da me vissuta dall'11 settembre '43 in poi, perché solo chi l'ha vissuta può veramente comprendere.

La distribuzione della "sbobba" in baracca; fonte

Così inizia il diario di un internato italiano.
Da lettere e diari capiamo che una delle principali sofferenze patite dagli IMI, nei lager come al lavoro coatto, è la denutrizione.

Anche le testimonianze dei prigionieri valvesi sottolineano spesso la fame patita e il fatto di essere tornati a casa ormai diventati magrissimi.

In diversi casi le calorie giornaliere sono meno di 1000.              

Il pasto principale è la Suppe, detta "sbobba", una brodaglia di rape (in alcune lettere viene chiamata "acqua sporca"), con l'aggiunta o l'alternativa di un po' di pane di segala, 20-25 grammi di margarina, un cucchiaio di marmellata, 25 grammi di zucchero, 500 grammi di patate ogni due o o tre giorni, crauti crudi, un mestolo di brodo nero detto caffè e poche altre varianti.

Mancano del tutto carne, verdura e frutta fresca: questo incide drasticamente sull'assunzione di vitamine e favorisce malattie come pleuriti, tubercolosi e tifo esantematico.
Il cibo è scadente, a volte perfino avariato, spesso trattato senza il rispetto delle più elementari norme igieniche.

Gli internati militari italiani non possono avere l'assistenza della Croce rossa, a causa del loro status giuridico. Di conseguenza, l'unico vero aiuto arriva dalle famiglie attraverso i pacchi alimentari, ma questo avviene per i militari originari delle regioni del Nord Italia sotto il controllo dei tedeschi e della Repubblica di Salò, tanto che tra i prigionieri nasce una discriminazione tra i cosiddetti "pacchisti" e i "magroni".

Un prigioniero siciliano scrive:

I settentrionali ricevono pacchi e (Dio mio!) si allontanano da noi. La nostra miseria li fa appartare.

La "sbobba" è una specie di pastone come quello che si dà ai maiali; una mezza gavetta di acqua con pezzi di cavolo rapa, una specie che gli italiani non hanno mai visto fino ad ora.

Un soldato la descrive nei dettagli: 

Nella minestra o "sbobba" trovi ogni ben di Dio, gli ingredienti vengono lessati così come vengono dalla madre terra e cioè con fango, terriccio, sabbia, pietruzze, parti legnose e putride e piene di vermi. Per parecchio tempo questo luridume ci è stato somministrato senza sale e perciò più nauseabondo. Non potrai immaginare mai e poi mai come sia ributtante questa roba fino a che lo stomaco non si abitua a questa specie di alimentazione. 

La distribuzione della sbobba avviene in modo faticoso e umiliante. 

Un prigioniero racconta che per mangiare la fila dura anche sei o sette ore: migliaia di prigionieri al freddo e affamati, che cercano di sostenersi l'uno con l'atro per stare in piedi, mentre le guardie se vedono che qualcuno si sposta leggermente lo colpiscono con uno stiletto sulle gambe o gli aizzano contro i cani.

Al momento della distribuzione gli internati fanno la massima attenzione e a volte sorgono accese discussioni, per fare in modo che il cibo sia ripartito senza imbrogli e favoritismi.

Spesso alla sbobba vengono aggiunti disinfettanti e purganti.

Un internato militare prigioniero a Dachau scrive che questi hanno effetti fastidiosi debilitanti: "Qui quello che va più stitico va sedici volte al giorno. C'è un giro di diarrea che ci porta via tutti quanti".

Pur di mangiare, i prigionieri sembrano disposti a tutto, anche a dare la caccia ai topi; spesso si accontentano degli scarti alimentari nell'immondizia (e a volte si gettano nella melma del letamaio per prendere carote marce, mentre i tedeschi ridono).

Un internato militare valvese a Dachau, Pasquale Volturo, è protagonista di un significativo episodio legato al tema del cibo, così raccontato dalla figlia Fiorenza:

Il cibo era scarso e pessimo; come tanti, di notte, approfittava del buio per andare dietro alle ricche mense dei tedeschi e cercare tra i rifiuti una buccia di carota, di rapa, o, con maggiore fortuna, qualche patata. Fu proprio furante una di quelle notte che un militare tedesco lo soprese a "rubare cibo" e gli pianto la punta della sua baionetta nel polpaccio sinistro. Lui ce la fece a scappare e nascondersi. Si salvò. Da quell'episodio e da quella vita, che vita non era, aveva preso l'abitudine di raccogliere sempre le briciole dalla tavola apparecchiata e portarla alla bocca: era il suo marchio [...] di un soldato italiano fedele alla sua Patria.


Per approfondire
📙Mario Avagliano - Marco Palmieri, I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz'armi (1943-1945), il Mulino, 2020

Citazioni
Le informazioni e le citazioni contenute in questo post sono tratte dalle pagine 237-246 del libro di Avagliano e Palmieri

La testimonianza di Fiorenza Volturo relativa al padre Pasquale è tratta da questo suo articolo: