10 agosto 2023

"TU SAI LA STORIA E IO I FATTI": LA GUERRA VISSUTA A VALVA NEI RICORDI DI UNA TESTIMONE

Sono qui per parlare di un marinaio catturato dai tedeschi e fuggito da un treno in corsa, ma mi basta una frase per capire che devo solo prendere appunti e lasciarmi guidare dai ricordi della sua vedova.

La frase è "Tu sai la storia e io i fatti", lei una signora di 91 anni che racconta per oltre tre ore, io un dilettante spiazzato. Pensavo infatti di condurre la conversazione, ma capisco subito che i ruoli sono chiari e che il mio compito è quello di azionare questa straordinaria energia chiamata memoria. 

L'estate del 1943

L'estate di ottanta anni fa è stata dura, per tutti.

"Anche per noi qui la guerra è stata dura", mi dice la signora Marietta Marciello ("all'anagrafe ovviamente sono Maria", precisa).

Guerra a Valva significa i tedeschi nella Villa d'Ayala, con la presenza per alcuni giorni addirittura del feldmaresciallo Kesserling. Significa i colpi di artiglieria, le bombe americane cadute anche nei pressi dell'abitazione in cui la signora Marietta mi riceve: "Qui c'era un piccolissimo albergo occupato dai tedeschi, una bomba è caduta qui sotto, vicino all'ex frantoio", mi spiega. 

Casa Megaro nel 1960: Marietta Marciello è sul balcone, con due figli;
la donna in basso è la cognata Maria Assunta Megaro
fonte

Guerra a Valva significa la fuga dei civili nelle grotte della montagna e di Villa d'Ayala. Particolarmente significativo il fatto che in centinaia si siano rifugiai nella grotta dedicata a San Michele Arcangelo, patrono di Valva: forse mai richiesta di protezione a un santo fu più concreta, col suo santuario che diventa rifugio e casa.

Grotta di San Michele, ingresso (foto di Valentino Cuozzo)

Grotta di San Michele, interno (foto di Valentino Cuozzo)

Marietta aveva undici anni quando si è nascosta con la famiglia nelle grotte di Valva: quella di San Michele e quella, più piccola, detta di Paulo

Grotta di Paulo. Mi sembra quasi un luogo mitico, da fiaba, eppure diventa concreto quando la signora Marietta mi parla di zio Abramo Vacca che cucinava per le famiglie rifugiate lì e rassicurava i bambini dando la colpa delle fiamme che si vedevano sulla montagna a pastori distratti che avevano lasciato acceso il fuoco. Diventa un luogo concreto quando mi parla del letto di paglia -usa un bel termine dialettale, curm, per indicare gli steli- su cui la madre metteva lenzuola portate dalla loro abitazione non lontana; dormivano all'aperto, ricorda. Un luogo che sa di salvezza e di futuro, visto che tra le persone che vi si nascondevano c'era anche la futura suocera, Carmela Conte ("ma all'epoca nemmeno conoscevo mio marito Bonaventura").

I civili salvati parlando in inglese

La signora Marietta è sicura: un uomo è stato provvidenziale nel salvare i civili nascosti nelle grotte. Gli americani erano insospettiti dal fumo che vedevano sulla montagna, ma il signor Vito Iannuzzi, che conosceva l'inglese perché viveva in America, parlando con i soldati spiegò loro che nelle grotte non c'erano tedeschi nascosti ma solo civili.

Rientrato neli USA, Vito Iannuzzi è deceduto a Bernardsville (New Jersey) nel 1959. La signora Marietta ricorda il nome della figlia, Perlina; ho verificato: nel necrologio di Vito Iannuzzi è citata la figlia Pearl, coniugata Di Masi. 

La guerra a Valva: tra tedeschi e americani 

"Prima eravamo alleati dei tedeschi, poi siamo diventati amici degli americani", ricorda la signora Marietta, anche per spiegare i buoni rapporti che la popolazione ha cercato di mantenere con i soldati dei due schieramenti.

A tale proposito, racconta due episodi significativi: la cucina dei tedeschi e la chiacchierata col soldato italo-americano. 

"Andando via, i tedeschi hanno lasciato alla mia famiglia una cucina a carbone, che a Valva ancora non c'era. L'abbiamo usata per anni, anche per preparare il sugo il giorno del mio matrimonio, nel 1952". 

All'arrivo degli americani, la giovanissima Marietta era molto prudente, perché aveva ricevuto dal padre l'ordine di non accettare nulla. "Un giorno ho visto mio padre col fucile da caccia e il tascapane che parlava con un soldato, forse un ufficiale, vicino a casa nostra; c'era un gruppetto di altri soldati;  l'americano chiedeva se ci fossero tedeschi, parlava con mio padre e guardava me; quando mi offrì caramelle e biscotti, io guardai mio padre, che mi rassicurò: Mariolina, siamo amici. Il soldato infatti parlò in italiano, dicendo che era italiano e che anche lui aveva una bambina come me. Ricordo queste parole: sono di sangue italiano, ho combattuto contro l'Italia!". Oltre alle caramelle e ai biscotti, la signora Marietta ricorda la carne in scatola, mai assaggiata prima.

Anni Sessanta: pellegrini tornano dalla grotta di San Michele;
siamo in località Vallone della Noce,
dove abitava da nubile la signora Marietta; fonte 
Guardo i miei appunti: ho ancora molto da scrivere. 
Devo ancora raccontarvi dell'ordigno trovato nel vallone, di un ragazzo morto in un'esplosione, della visita degli studenti alla madre di un caduto in guerra, del rientro degli sbandati dopo l'8 settembre e della vicenda del marito, il signor Bonaventura Megaro. 
Il racconto di zia Marietta continua.

Un cordiale ringraziamento a Lucia Farella.

G.V.

Approfondimenti

Albert Kesserling ha insediato il suo comando nel castello di Villa d'Ayala Valva.

Per approfondire, si rimanda a questi post di Gozlinus:
👉Ricordi del nostro passato
👉Valva 1943: storia di uno scampato pericolo

Segnaliamo due interessanti testi della sezione Ricordi del blog Gozlinus:
👉Michele Gaudiosi, Valva 1943 
👉Mario Valletta, Valvesi doc 

Ecco come appariva il castello in quegli anni:

fonte

La grotta di Paulo è pericolosa da raggiungere a causa delle rocce friabili e del fatto che non esiste un sentiero. "Osservando le nostre montagne da valle si trova posizionata a metà fra la grotta di San Michele e Valva vecchia; mi hanno raccontato che è simile a quella di San Michele, solo che il davanti è aperto ovvero senza murature", ci spiega Valentino Cuozzo, fotografo naturalista esperto del territorio di Valva e della valle del Sele.

Ecco la probabile localizzazione della grotta, in una bella foto con le montagne innevate:









03 agosto 2023

IL MISTERO DEI DUE CADUTI IN GUERRA CON LO STESSO NOME

È bello raccontare storie in cui tutti i tasselli siano al posto giusto, ma a volte capita di dover ammettere che i dubbi sono superiori ai dati accertati. Altre volte ci sono i dati e addirittura le foto, ma in paese non c'è più memoria delle persone.
Questo è uno dei casi.
Due caduti in guerra valvesi hanno lo stesso nome e sono di difficile identificazione: Giuseppe Macchia.
Giuseppe Macchia fu Giacomo (1911)
Il primo è nato nel 1911 ed è uno dei caduti della Divisione Acqui, a Corfù, il 9 settembre 1943. 
Ne abbiamo una foto grazie a un meritorio lavoro di una classe del liceo "G. Da Procida" di Salerno:
fonte
Ecco il suo atto di nascita:
Nel 1937, Giuseppe sposa Giacomina Cuozzo, a Caposele.
Non sono chiari i motivi di questa scelta degli sposi, visto che entrambi sono residenti a Valva, ma leggendo l'atto di matrimonio possiamo formulare un'ipotesi:

La mamma dello sposo, Francesca Torsiello (già defunta all'epoca del matrimonio) in questo documento risulta residente a Caposele.
Gli sposi potrebbero aver scelto di farle un omaggio celebrando il proprio matrimonio a Caposele (o più probabilmente al santuario di Materdomini, frazione di Caposele).
I genitori della sposa sono Michele Cuozzo (già defunto) e Maria Michela Di Leone. 
Non risultano figli negli anni successivi.
Giuseppe partecipa alle operazioni di guerra sul fronte albano-greco-jugoslavo fino alla resa della Grecia e riceve il distintivo del Regio Governo d'Albania. Successivamente è aggregato al Battaglione mitraglieri. 
Quando cade a Corfù, suo padre risulta già deceduto, come vediamo al monumento ai caduti a Valva: 

Giuseppe Macchia di Carmine (1921)
Nemmeno l'altro Giuseppe Macchia è stato identificato.
Nato a Valva il 24 settembre 1921 in via Madonna degli Angeli, è figlio di Carmine e di Anna Spiotta.
Quando Giuseppe nasce, suo padre Carmine è un pastore di trenta anni.
Il soldato risulta caduto il 1 agosto 1943.
Al Comune di Valva  con un evidente errore  risulta "ritenuto disperso in Atene nel settembre 1944 (sic!)".

Approfondimento

Ecco altri post in cui sono citati i due soldati:

Questo è un post di Gozlinus:

23 luglio 2023

AL MUSEO DELL'INTERNAMENTO, TRA OGGETTI CHE PARLANO

Gli oggetti di un museo parlano. 

Basta saperli ascoltare dimenticando per un attimo quello che si conosce, quello che si legge nelle didascalie, le congetture e le ipotesi.

Come il profumo dell'erba appena falciata è intenso perché è un segnale di pericolo, un allarme contro il predatore, così forse è per gli oggetti di un museo della memoria.

Hanno un profumo anche se sono chiusi in una teca; è il segnale del pericolo contro l'eterno ritorno della guerra e della violenza dell'uomo sull'uomo, il segnale del rischio che il frutto dell'odio dia di nuovo seme.

Nell'antica Roma il berretto era il distintivo degli schiavi liberati.
Nell'antica Roma.

Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il regolamento,
ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli,
non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire.

(Levi, Se questo è un uomo)

Io servo la patria facendo la guardia alla mia dignità di italiano 
(Guareschi, Diario clandestino)
Sono oggetti che gridano il NO! pronunciato dagli internati militari alle richieste tedesche.
A quella di aderire alla Repubblica di Salò, innanzitutto; in alcuni casi, il loro è anche un no al lavoro per i tedeschi, come testimoniano alcune pagine del diario di Giovanni Milanese.
Ecco come Giovannino Guareschi descrive la scena di alcuni che aderiscono:

Andai anch’io davanti alla finestra della baracca 6 a vedere la commissione assistenziale inviata dal governo repubblicano. La commissione assistenziale italiana era un tenente catanese e un sottufficiale tedesco, e l’esigua cameretta rigurgitava di gente. Molti domandavano informazioni e a costoro il tenente rispondeva allargando le braccia e scuotendo il capo. Un ufficiale mutilato del braccio destro chiese se fosse possibile avere qualche piccola agevolazione nel trattamento: ma ciò non rientrava nell’ambito della commissione assistenziale. La quale, naturalmente, non poteva neppure prendere in considerazione i vari casi di tbc e di deperimento organico, in quanto si occupava dell’assistenza più urgente: quella morale. E difatti, ogni volta che uno -dopo aver congiurato un po’ curvo sul tavolo – firmava il foglio con la famosa dichiarazione d’obbedienza al Grande Reich, il tenente catanese si alzava in piedi e porgeva la mano al nuovo camerata: «Mi congratulo con voi di aver aderito alla giovane repubblica italiana». E il sottufficiale tedesco approvava gravemente col capo come per significare che l’Asse gioiva intimamente dell’avvenimento. Era la prima volta che vedevo un soldato italiano col nuovissimo emblema repubblicano del gladio incoronato di quercia. E sentii spaventosamente straniera quella divisa che pure era identica alla mia. E quel soldato, che pure apparteneva alla mia stessa terra, sentii straniero e nemico più ancora del tedesco che gli stava al fianco.

Giovannino Guareschi, Ritorno alla base, Milano, Rizzoli, 1989

Chi non aderisce sa che rischia molto.

Mi tornano in mente le pagine del diario di Giovanni Milanese in cui i compagni lo invitano ad accettare di lavorare -è ormai nel suo ultimo campo, a Wietzendorf- perché è denutrito e se lavorasse i tedeschi lo nutrirebbero di più.

Morire ma non optare, leggo inciso su una tazza proveniente dal lager lazzaretto di Zeithain:

Incisione di Mario Turi, marzo 1944

L'orgoglio dei 650mila internati italiani che non aderiscono emerge con chiarezza da queste due bandiere: 

Tricolore dal Lager di Mittelbau-Dora. Donato al Museo dal cav. Sisto Santin,
che lo definisce "il più caro dei ricordi, intessuto di rischi, di patimenti e di speranza

Tricolore dal lager di Dortmund
Commovente la vicenda di questo lembo di bandiera. Quasi un lembo d'Italia.
Lembo della Bandiera del 383.mo Rgt. Fant. Venezia

Il 9 settembre 1943 a Tirana, il comandante del 383.mo Reggimento Fanteria "Venezia" decide di distruggere la bandiera reggimentale, dividendola in tanti lembi. 

"Erano le 17, ed il momento fu indescrivibile: era per noi il distacco più angoscioso dalle nostre famiglie, dall'avvenire, da ogni speranza. Io ho avuto questo lembo, che ho riportato in patria facendolo sfuggire alle numerose perquisizioni operate nei Lager di Meppen, Versen Biala-Podlaska, Sandbostel, Wietzendorf", scrive Andrea Fiorini, tenente comandante la compagnia comando del 383.mo Reggimento Fanteria "Venezia", che ha donato al Museo dell'internamento il lembo da lui ricevuto.

In questa metafora del paese allo sbando che era diventata l'Italia nei drammatici giorni dopo l'armistizio, leggo lo sforzo di custodire i frammenti di un simbolo, per ricostruirlo insieme dopo la tempesta e continuare a indentificarvisi.

Sì, gli oggetti di un museo parlano.


Per approfondire:

Questo è il sito del Museo dell'Internamento di Padova:




Visita al Museo dell'Internamento di Padova, 2 -continua-

G.V.

21 luglio 2023

CAVALLI 8 UOMINI 40

Cavalli 8 uomini 40
Al Museo dell'Internamento di Padova leggo il cartello affisso alla riproduzione di un treno utilizzato per la deportazione dei soldati italiani nei campi di prigionia del Terzo Reich e mi accorgo che queste parole non sono solo quelle di un ritornello che ora non riesco a togliermi dalla testa. 
Sono l'unità di misura di un treno merci, l'unità di misura della deportazione.
Penso ai miei concittadini che sono stati su un vagone come questo, dal settembre al novembre del 1943 e poi nei mesi successivi fino alla liberazione, da un campo all'altro, a volte da un paese all'altro, in inverno e in estate. 
Da un anno e mezzo cerco notizie su di loro ma non ne conosco ancora il numero preciso; alcuni resteranno ignoti, anche con ricercatori meno improvvisati di me. 
Penso agli altri, 650 mila in totale: di quanti non resta memoria, già oggi? Trasportati su treni merci perché non erano più considerati uomini, per arrivare in un campo in cui non sarebbero stati considerati nemmeno prigionieri di guerra. 
Entrato nel vagone, leggo la testimonianza di un deportato:

Il vagone, nuda scatola nera, ci inghiotte. Qualcuno butta dentro una balla di paglia, giaciglio e sedile per 40 uomini. Siamo in 53. La porta si chiude sull'ultima luce del tramonto. Apro lo sportello di uno dei quattro pertugi, alti, senza vetri, sulle estremità delle opposte pareti.  [...] Ci stendiamo, due a due, una coperta sulle gambe piegate, l'altra sulle spalle e sulla testa. La candela viene spenta. La fiammella rapida di un cerino o di un accendisigaro dà risalto, ogni tanto, a quel grumo d'uomini curvi, imbacuccati nelle coperte, la testa cacciata fra le ginocchia. [...]. E' come lo squarciarsi saltuario di un velo nero su una scena bestiale, una specie di "rivelazione" che ognuno ha, attraverso la visione complessiva, della miseria propria. [...] Poi riattacca la strascicata sinfonia ferrata delle ruote, lo sbatacchiare dei ganci d'attacco, i cigolii della vecchia scatola che pare sfasciarsi. [...] Nevica, largo e fitto. Dentro, le pareti del vagone, sotto agli spiragli, alle fessure e ai buchi, sono coperte da grosse formazioni di ghiaccio.

Giuseppe Zaggia, Filo spinato, Venezia 1945 

La rivelazione della propria miseria, attraverso la visione complessiva di uomini ridotti ad animali: guardo gli altri e mi accorgo di non essere più nulla. È l'opposto del canto di Ulisse, in fondo: fatti non foste a viver come bruti.
Treno merci, uomini, cavalli: è come se qui dentro i confini fossero diventati indistinti.
Il mio maledetto vizio delle comparazioni letterarie mi riporta alla mente le pagine drammatiche in cui Levi accusa i tedeschi di "violenza inutile", cioè gratuita. Da quel capitolo mirabile, il quinto de I sommersi e i salvati, mi torna alla memoria una frase che riassume la lotta per conservare la propria dignità: non siamo ancora bestie, non lo saremo finché cercheremo di resistere.
Entro nel museo e mi colpiscono subito i plastici che riproducono alcuni campi.
Uno è quello di Sandboster, tra Brema e Amburgo. 
Ricordo che è uno dei campi di cui parla un mio compaesano, Giovanni Milanese, nel suo diario.
Leggo che dopo l'8 settembre 1943 ha ospitato 67 mila internati militari italiani; in totale, in sei anni, 300mila prigionieri di 67 paesi, impiegati nell'agricoltura o nell'industria bellica; 50mila di loro, si calcola, sono morti di fame, di malattia o per le violenze subite.
Su un altro campo ho un po' più informazioni: è il campo di Giovannino Guareschi, l'autore di Don Camillo e Peppone, il campo di Alessandro Natta, segretario del PCI dopo Berlinguer; per me, è soprattutto l'ultimo campo in cui è stato prigioniero Giovanni Milanese (dal novembre 1944 alla liberazione): è l'Offizierlager 83, a Wietzendorf, a 50 chilometri da Hannover.  
Leggo le brevi informazioni accanto al plastico e mi torna in mente il concetto di unità di misura. In ogni camerata erano alloggiati da un minimo di 52 fino ad oltre 90 ufficiali, ma i posti letto erano sempre 52 per cui gli esuberi dormivano sui tavoli o a terra. 
Comprensibilmente, Giovanni Milanese saluterà la liberazione con queste parole: "Sono di nuovo un uomo e non più un numero".

Per approfondire:
👉Rapporto sul campo 83 Wietzendorf, del tenente colonnello Pietro Testa

Il post del blog "la ràdica" dedicato alla liberazione di Giovanni Milanese dal campo di Wietzendorf:

Questo è il sito del Museo dell'Internamento di Padova:



Visita al Museo dell'Internamento di Padova, 1 -continua-
G.V.


16 luglio 2023

L'INVOLONTARIO ARTEFICE

Avevamo vinto, avevamo sacrificato il fior fiore della nostra gioventù [...]. Ci si contendevano i termini [=i confini] sacri della Patria e c'erano in Italia dei democratici la cui democrazia consiste nel fare l'imperialismo per gli altri e nel rinnegarlo per noi (applausi) che ci lanciavano questa stolta accusa semplicemente perché intendevamo che il confine d'Italia al nord dovesse essere il Brennero dove sarà fin che ci sarà il sangue di un italiano in Italia (applausi). Intendevamo che il confine orientale fosse al Nevoso [in Slovenia] perché là sono i naturali giusti confini della Patria e perché non eravamo sordi alla passione di Fiume e perché portavamo nel cuore lo spasimo dei fratelli della Dalmazia perché infine sentivamo vivi e vitali quei vincoli di razza che non ci lega soltanto agli italiani da Zara a Ragusa ed a Cattaro [in Montenegro] ma che ci lega anche agli italiani del Canton Ticino, anche a quegli italiani che non vogliono più esserlo, a quelli di Corsica a quelli che sono al di là dell'Oceano, a questa grande famiglia di 50 milioni di uomini che noi vogliamo unificare in uno stesso orgoglio di razza (applausi). 
[...] Noi italiani del secolo XX abbiamo veduto la grande tragedia del compimento nazionale, noi che portiamo nel profondo del nostro animo il ricordo di tutti i nostri morti che sono la nostra religione, noi o cittadini d'Italia facciamo un solo giuramento un solo proposito: vogliamo essere gli artefici modesti ma tenaci delle sue fortune presenti e avvenire.

E' il 3 aprile 1921, la domenica dopo Pasqua, e al Teatro Comunale di  Bologna si tiene l'adunata dei fasci emiliani. Le parole di Benito Mussolini, non ancora Presidente del Consiglio, sembrano già preannunciare un futuro di guerra che incombe sull'Italia: ci penserà il regime fascista a inculcare nelle menti e nei cuori degli italiani l'obiettivo di essere artefici della gloria della patria, a ogni costo, attraverso una politica espansionistica in nome dei "naturali giusti confini" e dell' "orgoglio di razza".

In quella stessa domenica a Valva nasce Domenico StrolloI genitori sono Francesco e Maria Giuseppa Cuoco.

La carriera militare

Il 4 maggio 1940 Domenico è dichiarato abile e arruolato.

Chiamato alle armi il 6 gennaio 1941, è assegnato al 43.mo Reggimento artiglieria in Africa Settentrionale, addetto al deposito munizioni e attrezzature; vi resta fino all'ottobre 1941.


Dai documenti risulta che la sua prima campagna di guerra è quella in Balcania: l'8 ottobre 1941, infatti, Domenico Strollo viene trasferito al 48.mo Reggimento artiglieria mobilitato in Montenegro, dove resterà fino al 29 agosto del 1942. 

Il Reggimento artiglieria "Taro" è un reparto della 48.ma Divisione di fanteria "Taro". Dopo la resa della Grecia, nell'aprile 1941, la Divisione è stata trasferita in Montenegro per presidiare il territorio e reprimere la resistenza locale.

L'occupazione italiana del Montenegro inizia con l'invasione del Regno di Jugoslavia, nell'aprile del 1941; nel luglio 1941 inizia un'insurrezione generale da parte della popolazione e dei partigiani comunisti. I rinforzi consentono al corpo di occupazione italiano di riprendere il controllo della situazione in circa un anno. I partigiani torneranno in Montenegro nella primavera del 1943, tanto da rendere necessario l'intervento delle truppe tedesche a sostegno della repressione italiana.  (fonte

La Divisione rientra in Italia nell'agosto 1942 -e infatti nel foglio matricolare di Domenico leggiamo la data del 29- e viene dislocata in Piemonte, nella zona di Alessandria-Novi Ligure, per poi trasferirsi in Francia a novembre (il 10, leggiamo nel foglio matricolare).

Domenico si trova nella Francia meridionale, a nord di Tolone, lungo la costa nella zona di Cuers, tra Mèounes-lès-Montrieux, Pierrefeu e Carnoules.

Nel 1943 la Divisione resta nella Francia meridionale, a presidiare la zona a nord di Tolone e a est del porto, fino a settembre.

L'Italia occupa la Francia meridionale tra il 1940 e il 1943, fino all'armistizio dell'8 settembre. La Divisione Taro è impegnata -nel XXII Corpo d'armata- nella difesa del cosiddetto Primo settore, che si estende dal lago di Ginevra sino a Bandol.  
I partigiani francesi approfittano della caduta del fascismo per attaccare le forze di occupazione italiana, che fino a quel momento hanno mantenuto una linea morbida; nuove disposizioni restrittive in materia di ordine pubblico non vengono realmente attuate a causa della fine dell'occupazione italiana. 
Il governo di Pietro Badoglio dà inizio al ritiro delle truppe, ridislocandole in Italia. Si prevede di lasciare truppe italiane solo nel saliente nizzardo compreso tra il confine e la linea Tinea-Varo. L'Italia si impegna a lasciare alla Germania il pieno controllo dell'area entro il 9 settembre.  (fonte)

In questa bella foto con i suoi commilitoni,
Domenico Strollo è con la camicia chiara, senza giacca.

La cattura e l'internamento in Germania

L'8 settembre 1943 viene reso noto l'armistizio firmato con gli Alleati e inizia una nuova fase della guerra.

L'8 settembre l'evacuazione delle truppe italiane non è ancora completata: circa 100mila uomini sono lasciati nelle mani dei tedeschi, che impegnano contro gli italiani tre divisioni con mezzi corazzati e motorizzati. Gli italiani cercano di resistere ma molti sono costretti alla resa. I soldati che riescono a evitare la cattura cercano di riorganizzarsi in territorio italiano, con un ripiegamento nella zona di Cuneo-Mondovì; l'11 settembre, però, dopo aver isolato il grosso delle truppe italiane, i tedeschi hanno già conquistato Torino, Alessandria, Asti, Alba, Bra e Vercelli.  (fonte) 

Domenico Strollo risulta fatto prigioniero dei tedeschi già il giorno 9. Come molti suoi commilitoni, inizia la deportazione in Germania, finalizzata al lavoro coatto.

Un altro valvese si trova in Francia in questi giorni, ma riesce a sottrarsi alla prigionia e trova ospitalità presso una famiglia borghese a Pianfei, in provincia di Cuneo: è Michele Cecere, che aderirà alla lotta partigiana dal luglio 1944 al giugno 1945.

Sappiamo con certezza che Domenico Strollo è prigioniero in Germania: risulta nello Stalag VI D, a Dortmund. 

Stalag VI, Dortmund; fonte

Sul sito di Ravizza Editore troviamo alcune preziose informazioni sullo Stalag VI. 
Dopo i bombardamenti del maggio 1944, nei quali persero la vita oltre cento prigionieri, le condizioni dei vita diventano catastrofiche: l'unico ingrediente dei pasti sono le patate. Il campo sarà completamente distrutto nei mesi successivi; verranno installate grandi tende (da 400 a 500 prigionieri) divise per nazionalità. 
Molti prigionieri riescono a fuggire, approfittando dei bombardamenti. Particolarmente grave il bilancio del bombardamento del 12 marzo  1945, che provoca moltissime vittime, anche a causa del divieto di accesso ai rifugi sotterranei della città di Dortmund per i prigionieri di guerra. 
Secondo un racconto orale raccolto dal nostro blog, anche il valvese Minente Figliulo è riuscito a fuggire in seguito a un bombardamento. 
I due compaesani si saranno incontrati nel campo?

fonte

Prigionieri di guerra nello Stalag VI; fonte

Il 7 aprile 1945 (oppure l'8 maggio, secondo altri documenti) Domenico Strollo viene liberato dalle truppe alleate, che lo trattengono fino all'11 agosto.

Il figlio Francesco ricorda che Domenico era impiegato in un'azienda agricola. Non siamo ancora riusciti a trovare documenti più precisi in merito.

Una geografia appresa in guerra

Soldato in Africa, poi impegnato su due fronti di guerra in Europa, infine internato militare in Germania: la geografia che Domenico Strollo ha imparato sui campi di battaglia e in quello di prigionia testimonia le conseguenze della politica espansionistica del regime fascista -già accennata in quelle lontane parole pronunciate, mentre egli stava nascendo, da Mussolini a Bologna- e la rottura dell'Asse, prodotta dall'armistizio dell'8 settembre 1943; una rottura che ha reso particolarmente duro l'atteggiamento dei tedeschi verso i soldati italiani. 

In questo significativo fotomontaggio, accanto a Domenico Strollo
ci sono due figli carabinieri: Mario (sx) e Francesco

Approfondimenti

Un video sulla presenza italiana nei Balcani: 1941: Italia in guerra- Fuoco nei Balcani

Il blog "la ràdica" ha dedicato il podcast IL GIORNO DOPO alle conseguenze dell'8 settembre 1943, dal punto di vista dei soldati valvesi; in particolare, Domenico Strollo viene citato nell'episodio 🎧La prima resistenza, terza parte; si veda anche il post 👉Otto valvesi prigionieri.

Alla figura del partigiano Michele Cecere il blog "la ràdica" ha dedicato diversi post:


Il blog Gozlinus ha dedicato un bel post a Mario Strollo, figlio di Domenico, tenente dell'Arma dei carabinieri. 

Un cordiale ringraziamento ai figli Gerardo, Mario e Francesco per la gentile collaborazione.

G.V.



12 luglio 2023

SI PUO' SEMPRE DIRE UN SI' O UN NO

Padova, è estate già da un pezzo.
Sono qui per visitare il Museo dell'Internamento ma una scritta attira la mia attenzione.
Non sapevo del Giardino dei Giusti del mondo, proprio di fronte al Tempio dell'Internato ignoto e al Museo, basta attraversare la strada.
È una scritta che ha l'efficacia assertiva e un po' sfrontata degli slogan, di quelli che non attendono repliche.

Non ci avevo mai pensato davvero. Anche quando sono con le spalle al muro, posso sempre dire un sì o un no. Posso accettare un compromesso e ripetere passivamente un sì o un no detto chissà quando; posso correre un rischio e pronunciarlo senza rete di protezione.
Questo è un luogo in cui si ricordano i Giusti, ma la frase -quella che non ammette repliche come uno slogan- può essere anche la chiave per entrare al meglio al museo e interpretate la scelta degli internati militari italiani.
Ho i versi di Montale in testa.
Sento che è un momento importante perché Montale non è un poeta da giorni feriali, non per me. Non li ricordo a memoria, ora che trascrivo le mie note di viaggio devo andarli a cercare. Non smetterò di sorprendermi leggendoli:

Dicono che chi abiura e sottoscrive
Può salvarsi da questo sterminio d'oche;
Che chi obiurga se stesso, ma tradisce
e vende carne d'altri, afferra il mestolo
anzi che terminare nel paté
destinato agli dei pestilenziali.

In classe li spiego così: dicono che chi ritratta e sottoscrive una dichiarazione o una confessione può salvarsi da questo sterminio di esseri indifesi ("oche"); dicono che chi rinnega se stesso e tradisce, denunciando i propri compagni, riesce  ad afferrare il mestolo invece di finire nel paté destinato agli dei della peste, le divinità del male. 
Montale parla in termini assoluti: la prigionia come allegoria, impiega immagini concrete per esprimere un dolore esistenziale; quello degli IMI è un caso di specie, ma non sono sicuro che sia una forzatura interpretare i versi del suo Sogno del prigioniero anche come un riferimento al NO pronunciato da 650mila internati militari italiani, alcuni dei quali ho conosciuto. 
Quando la poesia è alta, comprende anche i casi particolari.
Decido di visitare questo luogo della memoria.

La semplice grandezza del bene
Leggo i nomi. Alcuni li conosco, altri no ma mi incuriosiscono; leggo le loro storie o per meglio dire do un'occhiata rapida alle informazioni che scopro inquadrando il qr code.
Un luogo fisico e immateriale a un tempo. 
È molto fisico: ho i piedi nell'erba e per scattare una foto devo scostare un po' un ramo; è anche un luogo digitale, come se le storie fossero altrove, nello spazio che tutto accoglie, la grande piazza del mondo.
Leggo poche parole e colloco nello spazio e nel tempo l'azione dei giusti, la loro lotta spesso silenziosa contro i genocidi di ieri e di oggi. 
Leggo della Shoah, degli Armeni, della Bosnia, del Ruanda.
A rendere materiale la memoria, un albero e una semplice stele, con nome scritto per sottrazione di materia: come se dal vuoto, dal silenzio della storia, emergesse l'eco di un sì alla vita, di un no alla morte.
Mi fermo davanti al nome di Giorgio Perlasca.


Un magnifico impostore, di quelli che fanno atti di eroismo e ti chiedono: Tu cosa avresti fatto al mio posto? 
La sua storia è stata raccontata da un bel libro di Enrico Deaglio. Sempre più spesso, questa vicenda avvincente è raccontata a teatro, perché i giovani sappiano ciò che è stato e immaginino ciò che poteva essere se tutti. 
Mi rallegra e mi sorprende leggere accanto a quello di Perlasca questo nome:
Mi rallegra, perché Giovanni Palatucci era un uomo della mia terra, nipote del vescovo della mia diocesi. 
Mi sorprende, perché la sua vicenda è oggetto di un confronto storiografico per fare piena luce sulla sua figura, da alcuni studiosi messa in discussione. 
Bello trovarlo qui, così lontano dalla nostra terra. So che potrei parlargli nel mio dialetto e mi capirebbe. Casa è il luogo in cui rispondono al tuo dialetto.
Poco più in là, quasi a formare una triade di nomi a me cari, un dottore che a molti non dice ancora nulla:
Non era solo il papà di Piero e il nonno di Alberto (sarebbe già un merito): ha salvato ebrei nascondendoli con falsi ricoveri nel reparto di psichiatria da lui diretto in provincia di Torino.
Mi colpiscono due steli vicine: hanno lo stesso cognome, non può essere una coincidenza.
Non lo è.
Lei è stata un'intellettuale turca che ha denunciato il genocidio armeno, subendo processi e condanne.
Leggo le sue parole e mi sembra di ritrovare quelle di Perlasca.
Forse i Giusti, quelli che rischiano la vita e rinunciano alla libertà per fare del bene a persone che non sono della loro nazione o della loro religione, hanno un linguaggio comune. Forse è la lingua universale dell'umanità e non ha bisogno di traduzione:

Per quanto mi riguarda io ho fatto il mio dovere. Ho fatto qualche cosa che chiunque avrebbe dovuto fare. Non ho taciuto, ho parlato. Ho preceduto coloro che volevano parlare e mi sono assunta la responsabilità di quanto ho fatto, l'ho difeso ad ogni costo. 

Lei è Ayse Nur Zarakolu, deceduta nel 2002; il marito  Ragip, vivente, ha condiviso con la moglie la lotta per costruire un dialogo tra tutte le culture presenti in Turchia e per difendere i diritti umani.
Nemmeno di Giacomo Gorrini sapevo nulla.
Leggo che è stato ambasciatore italiano, uno dei principali testimoni oculari del genocidio armeno, che ha denunciato all'opinione pubblica italiana quando ancora la parola genocidio non esisteva (sarà coniata nel 1944).
Un'altra stele con più nomi mi colpisce:
Leggo "la storia di una salvezza e di un'amicizia".
Belli questi titoli: non saprei aggiungere né sottrarre una parola.
Elsa e Gino erano marito e moglie, Giuditta era la madre di Elsa: hanno ospitato una famiglia ebrea, quella del dottor Falck, in fuga dall'Istria e dalle persecuzioni razziali naziste. Dopo la guerra, le famiglie hanno continuato a vivere insieme come una sola famiglia.

Alberi, nomi e storie
Alberi per ricordare i giusti che si sono opposti allo sterminio, rischiando di far parte essi stessi dello sterminio.
Alberi e nomi, cone una sepoltura che ha ancora da dire ai vivi di oggi e di domani.
Alberi, nomi e storie di sì e di no, pronunciati senza calcolo per amore dell'uomo -o del dio- visto nell'altro.
Forse adesso posso attraversare la strada.

G.V.