21 agosto 2023

LA FALCE E IL FUCILE: I SOLDATI CHE MIETONO IL GRANO

Nel foglio matricolare di Angelo Michele Feniello c'è un'informazione curiosa.

Sbarcato a Napoli il 20 maggio 1944, viene subito inviato a Foggia per la mietitura del grano, finita la quale viene congedato, il 3 luglio.

Nato a Valva nel 1911, figlio di Lazzaro e di Antonia Del Plato, il soldato Feniello l'8 settembre 1943 si trova in Sardegna e sbarca in contiente solo otto mesi dopo.

Dopo l'8 settembre 1943, l'esercito italiano diventa cobelligerante. Si ricostituisce a fatica, visto che il numero di prigionieri e di sbandati è molto alto.

Angelo Michele è uno dei pochi valvesi che non torna a casa nei giorni dello sbando militare e istituzionale.

La raccolta del grano in periodo di guerra ha un valore economico e simbolico notevole, come dimostra anche l'attuale situazione in Ucraina.

Tre esempi possono rendere l'idea.

Archivio Luce; fonte

Il precedente del Piave

Nel giugno 1918, durante la "battaglia del solstizio" i soldati aiutano i contadini a raccogliere il grano per nutrire la popolazione.

Qui troviamo il racconto di un testimone: La mietitura eroica.

La battaglia del grano del regime fascista

La celebre "battaglia del grano" promossa dal regime fascista ha sicuramente un carattere popagandistico ma non si può negare una decisa spinta verso la modernizzazione dell'agricoltura, come sostiene ad esempio  Dino Messina in un articolo sul Corriere della Sera, dal titolo Quando Mussolini sognava l'autosufficienza dei granai:

Dietro gli aspetti propagandistici, che si riassumono nell'immagine del Duce a torso nudo su una trebbiatrice mentre passa un covone di grano a una contadina di un podere appena bonificato[...], c'è un grande sforzo di modernizzazione dell'agricoltura e il raggiungimento dell'obiettivo di raggiungere l'autosufficienza nel fabbisogno di frumento. [...] Ci si poneva l'obiettivo di incrementare il rendimento medio per ettaro senza aumentare eccessivamente la superficie coltivata a grano, ma attraverso la selezione di sementi migliori, l'uso intensivo di concimi, agevolazioni fiscali per il petrolio destinato a uso agricolo, il miglioramento del credito agrario, la diffusione di cattedre ambulanti oltre all'istituzioni di premi per i produttori più efficienti.

fonte

Il boicottaggio della trebbiatura in Emilia Romagna

Nell'estate del 1944 la raccolta del grano nelle regioni ancora sotto il controllo nazifascista diventa un problema. Per scongiurare la razzia di grano da parte delle truppe tedesche, ad esempio, il CLN dell'Emilia Romagna ordina di rallentare le operazioni.

Ecco un volantino del CLN di Reggio Emilia:

Agricoltori! Operai! Bisogna impedire che il grano venga consegnato agli ammassi, bisogna che ogni famiglia abbia il pane in casa per tutto l'anno, solo in questo modo si può essere garantiti dalla carestia. Contadini, ritardate la mietitura, trebbiate il più tardi possibile, nascondete il prodotto. Operai, fatevi consegnare il grano necessario alle vostre famiglie dai conferenti troppo zelanti che per paura soggiacciono sempre e subito alle imposizioni del nemico tedesco e dei suoi complici fascisti.  fonte

Approfondimento 

Altri fonti consultate per la "battaglia del grano" in Emilia Romagna:

Elisa Dondi, Comuni in guerra. Amministrazione, popolazione e risorse nella Bassa Romagna

https://www.straginazifasxiste.it/wp-contemt/uploads/schede/Ravenna_via_Belvedere_31lugkio44.pdf






12 agosto 2023

LA DIVISA DEL SABATO E GLI ORDIGNI BELLICI: LA GUERRA DELLA PICCOLA MARIETTA

I nomi delle mucche hanno una poesia che non so dire; spesso sono ricorrenti, come situazioni che ritornano in una fiaba, eco di un tempo eterno. 

La signora Marietta Marciello si esprime in italiano ma sa quando renderlo più efficace con qualche modo di dire o un termine tecnico dialettale; per un attimo mi sorprende sentirla parlare di mucche e di lavori nei campi, ma ho già capito che la nostra conversazione non ha finito di sorprendermi.

Che il racconto riprenda, dopo il post "Tu sai la storia e io i fatti": la guerra vissuta a Valva nei ricordi di una testimone.

La mucca e l'ordigno

"Stavo parando Spruvera, una mucca alla quale mancava solo la parola". 

Parare una mucca. L'espressione è idiomatica, costringe a giri di parole per renderne il senso: proviamo con richiamare una mucca che si è allontanata dalle altre e ricondurla al pascolo (mi perdonino zia Marietta e il dialetto valvese, mia lingua madre). 

"Pensavo l'avessero rubata, poi la vidi ferma nei pressi del vallone della Noce, verso la località Piroverde. Fissava un ordigno che aveva la forma di un proiettile ma era molto grande, era giallo e arancione. Andai ad avvisare mio padre, mi disse che avevo fatto bene a non avvicinarmi". 

Zia Marietta ricorda il nome del giovane soldato valvese chiamato a rimuovere l'ordigno: Angelo Michele Torsiello ("in guerra era stato ferito a una gamba"), che per portare via il pericoloso residuo bellico arrivò con due buoi aggiogati e delle lunghe funi. La parafrasi non rende l'efficacia del racconto: "un paricchio di buoi con delle lontane".

La madre del caduto in guerra

Le chiedo se ricorda l'arrivo della notizia di qualche caduto in guerra e mi trasporta nel 1942.

Quando è arrivata la notizia della morte del figlio di zia S'ppuccia 'di Stefano', noi studenti siamo andati con la maestra a fare le condoglianze alla madre del soldato, poi in chiesa per la funzione religiosa e abbiamo portato fiori al Monumento

Mi piace questa scena. 

Penso alla maestra Fernanda, la stessa di mio nonno e di mio padre, la stessa dell'ultimo reduce valvese della Seconda guerra mondiale, Giuseppe Feniello

1933, davanti a Palazzo Gaudiosi un gruppo di studenti di Valva
con la divisa del corpo di appartenenza;
la maestra Fernanda ha in braccio suo figlio; fonte 

Mi piace perché mi sembra una scena genuina di vita di paese, con la comunità che si stringe attorno alla madre che ha perso un figlio lontano. Quanto è diversa, mi dico, da quella pagina di Vittorini in cui il messo comunale annuncia alla madre di Silvestro che suo figlio è morto in guerra e la chiama "O madre fortunata!", con tutta la retorica del tempo. 

Il sabato fascista

Il ricordo ne suscita un altro:  "Il sabato non andavamo a scuola ma al monumento, cantavamo le canzoni patriottiche, ascoltavamo le notizie alla radio".

Figli e figlie della lupa al Monumento ai Caduti; fonte

Il prezioso archivio di Gozlinus, dal quale attingiamo queste immagini degli Anni Trenta, ci aiuta a ricostruire alcuni aspetti dell'educazione fascista: divise, parate, esercizi ginnici.

Cerimonia al Monumento ai Caduti con i bambini delle scuole elementari.
Si riconosce la maeatra Fernanda Superchi Gaudiosi; fonte 

Esercizi ginnici al Monumento ai Caduti; fonte

Aurelio, il ragazzo che fece una grande luce

Tra i bambini presenti in queste foto c'è sicuramente Aurelio Torsiello, che aveva 16 anni nel 1943 quando il 25 settembre "cessava di vivere a causa di un residuo bellico", come è riportato sulla sua lapide. 

Zia Marietta ricorda l'episodio e ne aggiunge un altro: Giuseppe Marciello ha perso alcune dita per lo stesso motivo.

Sono molti i bambini e i ragazzi in Italia che, incappando in ordigni non ancora esplosi, hanno fatto "una grande luce" come recita la bella dedica di un film di Pupi Avati. 

Dal sito dell'Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra leggiamo che ancoraoggi ogni anno in Italia vengono rinvenuti oltre 60mila residuati bellici.

Un cordiale ringraziamento alla signora Lucia Farella.

Approfondimento

Un "paricchio" di buoi, in una foto raccolta da Valentino Cuozzo.  L'uomo è Antonio Cuozzo, marito dell'ultima pacchiana di Valva: la signora Pasqualina Cuozzo, alla quale abbiamo dedicato il post La pacchiana che chiuse dietro di sé un mondo intero.


G.V.

 




 

10 agosto 2023

"TU SAI LA STORIA E IO I FATTI": LA GUERRA VISSUTA A VALVA NEI RICORDI DI UNA TESTIMONE

Sono qui per parlare di un marinaio catturato dai tedeschi e fuggito da un treno in corsa, ma mi basta una frase per capire che devo solo prendere appunti e lasciarmi guidare dai ricordi della sua vedova.

La frase è "Tu sai la storia e io i fatti", lei una signora di 91 anni che racconta per oltre tre ore, io un dilettante spiazzato. Pensavo infatti di condurre la conversazione, ma capisco subito che i ruoli sono chiari e che il mio compito è quello di azionare questa straordinaria energia chiamata memoria. 

L'estate del 1943

L'estate di ottanta anni fa è stata dura, per tutti.

"Anche per noi qui la guerra è stata dura", mi dice la signora Marietta Marciello ("all'anagrafe ovviamente sono Maria", precisa).

Guerra a Valva significa i tedeschi nella Villa d'Ayala, con la presenza per alcuni giorni addirittura del feldmaresciallo Kesserling. Significa i colpi di artiglieria, le bombe americane cadute anche nei pressi dell'abitazione in cui la signora Marietta mi riceve: "Qui c'era un piccolissimo albergo occupato dai tedeschi, una bomba è caduta qui sotto, vicino all'ex frantoio", mi spiega. 

Casa Megaro nel 1960: Marietta Marciello è sul balcone, con due figli;
la donna in basso è la cognata Maria Assunta Megaro
fonte

Guerra a Valva significa la fuga dei civili nelle grotte della montagna e di Villa d'Ayala. Particolarmente significativo il fatto che in centinaia si siano rifugiai nella grotta dedicata a San Michele Arcangelo, patrono di Valva: forse mai richiesta di protezione a un santo fu più concreta, col suo santuario che diventa rifugio e casa.

Grotta di San Michele, ingresso (foto di Valentino Cuozzo)

Grotta di San Michele, interno (foto di Valentino Cuozzo)

Marietta aveva undici anni quando si è nascosta con la famiglia nelle grotte di Valva: quella di San Michele e quella, più piccola, detta di Paulo

Grotta di Paulo. Mi sembra quasi un luogo mitico, da fiaba, eppure diventa concreto quando la signora Marietta mi parla di zio Abramo Vacca che cucinava per le famiglie rifugiate lì e rassicurava i bambini dando la colpa delle fiamme che si vedevano sulla montagna a pastori distratti che avevano lasciato acceso il fuoco. Diventa un luogo concreto quando mi parla del letto di paglia -usa un bel termine dialettale, curm, per indicare gli steli- su cui la madre metteva lenzuola portate dalla loro abitazione non lontana; dormivano all'aperto, ricorda. Un luogo che sa di salvezza e di futuro, visto che tra le persone che vi si nascondevano c'era anche la futura suocera, Carmela Conte ("ma all'epoca nemmeno conoscevo mio marito Bonaventura").

I civili salvati parlando in inglese

La signora Marietta è sicura: un uomo è stato provvidenziale nel salvare i civili nascosti nelle grotte. Gli americani erano insospettiti dal fumo che vedevano sulla montagna, ma il signor Vito Iannuzzi, che conosceva l'inglese perché viveva in America, parlando con i soldati spiegò loro che nelle grotte non c'erano tedeschi nascosti ma solo civili.

Rientrato neli USA, Vito Iannuzzi è deceduto a Bernardsville (New Jersey) nel 1959. La signora Marietta ricorda il nome della figlia, Perlina; ho verificato: nel necrologio di Vito Iannuzzi è citata la figlia Pearl, coniugata Di Masi. 

La guerra a Valva: tra tedeschi e americani 

"Prima eravamo alleati dei tedeschi, poi siamo diventati amici degli americani", ricorda la signora Marietta, anche per spiegare i buoni rapporti che la popolazione ha cercato di mantenere con i soldati dei due schieramenti.

A tale proposito, racconta due episodi significativi: la cucina dei tedeschi e la chiacchierata col soldato italo-americano. 

"Andando via, i tedeschi hanno lasciato alla mia famiglia una cucina a carbone, che a Valva ancora non c'era. L'abbiamo usata per anni, anche per preparare il sugo il giorno del mio matrimonio, nel 1952". 

All'arrivo degli americani, la giovanissima Marietta era molto prudente, perché aveva ricevuto dal padre l'ordine di non accettare nulla. "Un giorno ho visto mio padre col fucile da caccia e il tascapane che parlava con un soldato, forse un ufficiale, vicino a casa nostra; c'era un gruppetto di altri soldati;  l'americano chiedeva se ci fossero tedeschi, parlava con mio padre e guardava me; quando mi offrì caramelle e biscotti, io guardai mio padre, che mi rassicurò: Mariolina, siamo amici. Il soldato infatti parlò in italiano, dicendo che era italiano e che anche lui aveva una bambina come me. Ricordo queste parole: sono di sangue italiano, ho combattuto contro l'Italia!". Oltre alle caramelle e ai biscotti, la signora Marietta ricorda la carne in scatola, mai assaggiata prima.

Anni Sessanta: pellegrini tornano dalla grotta di San Michele;
siamo in località Vallone della Noce,
dove abitava da nubile la signora Marietta; fonte 
Guardo i miei appunti: ho ancora molto da scrivere. 
Devo ancora raccontarvi dell'ordigno trovato nel vallone, di un ragazzo morto in un'esplosione, della visita degli studenti alla madre di un caduto in guerra, del rientro degli sbandati dopo l'8 settembre e della vicenda del marito, il signor Bonaventura Megaro. 
Il racconto di zia Marietta continua.

Un cordiale ringraziamento a Lucia Farella.

G.V.

Approfondimenti

Albert Kesserling ha insediato il suo comando nel castello di Villa d'Ayala Valva.

Per approfondire, si rimanda a questi post di Gozlinus:
👉Ricordi del nostro passato
👉Valva 1943: storia di uno scampato pericolo

Segnaliamo due interessanti testi della sezione Ricordi del blog Gozlinus:
👉Michele Gaudiosi, Valva 1943 
👉Mario Valletta, Valvesi doc 

Ecco come appariva il castello in quegli anni:

fonte

La grotta di Paulo è pericolosa da raggiungere a causa delle rocce friabili e del fatto che non esiste un sentiero. "Osservando le nostre montagne da valle si trova posizionata a metà fra la grotta di San Michele e Valva vecchia; mi hanno raccontato che è simile a quella di San Michele, solo che il davanti è aperto ovvero senza murature", ci spiega Valentino Cuozzo, fotografo naturalista esperto del territorio di Valva e della valle del Sele.

Ecco la probabile localizzazione della grotta, in una bella foto con le montagne innevate:









03 agosto 2023

IL MISTERO DEI DUE CADUTI IN GUERRA CON LO STESSO NOME

È bello raccontare storie in cui tutti i tasselli siano al posto giusto, ma a volte capita di dover ammettere che i dubbi sono superiori ai dati accertati. Altre volte ci sono i dati e addirittura le foto, ma in paese non c'è più memoria delle persone.
Questo è uno dei casi.
Due caduti in guerra valvesi hanno lo stesso nome e sono di difficile identificazione: Giuseppe Macchia.
Giuseppe Macchia fu Giacomo (1911)
Il primo è nato nel 1911 ed è uno dei caduti della Divisione Acqui, a Corfù, il 9 settembre 1943. 
Ne abbiamo una foto grazie a un meritorio lavoro di una classe del liceo "G. Da Procida" di Salerno:
fonte
Ecco il suo atto di nascita:
Nel 1937, Giuseppe sposa Giacomina Cuozzo, a Caposele.
Non sono chiari i motivi di questa scelta degli sposi, visto che entrambi sono residenti a Valva, ma leggendo l'atto di matrimonio possiamo formulare un'ipotesi:

La mamma dello sposo, Francesca Torsiello (già defunta all'epoca del matrimonio) in questo documento risulta residente a Caposele.
Gli sposi potrebbero aver scelto di farle un omaggio celebrando il proprio matrimonio a Caposele (o più probabilmente al santuario di Materdomini, frazione di Caposele).
I genitori della sposa sono Michele Cuozzo (già defunto) e Maria Michela Di Leone. 
Non risultano figli negli anni successivi.
Giuseppe partecipa alle operazioni di guerra sul fronte albano-greco-jugoslavo fino alla resa della Grecia e riceve il distintivo del Regio Governo d'Albania. Successivamente è aggregato al Battaglione mitraglieri. 
Quando cade a Corfù, suo padre risulta già deceduto, come vediamo al monumento ai caduti a Valva: 

Giuseppe Macchia di Carmine (1921)
Nemmeno l'altro Giuseppe Macchia è stato identificato.
Nato a Valva il 24 settembre 1921 in via Madonna degli Angeli, è figlio di Carmine e di Anna Spiotta.
Quando Giuseppe nasce, suo padre Carmine è un pastore di trenta anni.
Il soldato risulta caduto il 1 agosto 1943.
Al Comune di Valva  con un evidente errore  risulta "ritenuto disperso in Atene nel settembre 1944 (sic!)".

Approfondimento

Ecco altri post in cui sono citati i due soldati:

Questo è un post di Gozlinus:

23 luglio 2023

AL MUSEO DELL'INTERNAMENTO, TRA OGGETTI CHE PARLANO

Gli oggetti di un museo parlano. 

Basta saperli ascoltare dimenticando per un attimo quello che si conosce, quello che si legge nelle didascalie, le congetture e le ipotesi.

Come il profumo dell'erba appena falciata è intenso perché è un segnale di pericolo, un allarme contro il predatore, così forse è per gli oggetti di un museo della memoria.

Hanno un profumo anche se sono chiusi in una teca; è il segnale del pericolo contro l'eterno ritorno della guerra e della violenza dell'uomo sull'uomo, il segnale del rischio che il frutto dell'odio dia di nuovo seme.

Nell'antica Roma il berretto era il distintivo degli schiavi liberati.
Nell'antica Roma.

Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il regolamento,
ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli,
non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire.

(Levi, Se questo è un uomo)

Io servo la patria facendo la guardia alla mia dignità di italiano 
(Guareschi, Diario clandestino)
Sono oggetti che gridano il NO! pronunciato dagli internati militari alle richieste tedesche.
A quella di aderire alla Repubblica di Salò, innanzitutto; in alcuni casi, il loro è anche un no al lavoro per i tedeschi, come testimoniano alcune pagine del diario di Giovanni Milanese.
Ecco come Giovannino Guareschi descrive la scena di alcuni che aderiscono:

Andai anch’io davanti alla finestra della baracca 6 a vedere la commissione assistenziale inviata dal governo repubblicano. La commissione assistenziale italiana era un tenente catanese e un sottufficiale tedesco, e l’esigua cameretta rigurgitava di gente. Molti domandavano informazioni e a costoro il tenente rispondeva allargando le braccia e scuotendo il capo. Un ufficiale mutilato del braccio destro chiese se fosse possibile avere qualche piccola agevolazione nel trattamento: ma ciò non rientrava nell’ambito della commissione assistenziale. La quale, naturalmente, non poteva neppure prendere in considerazione i vari casi di tbc e di deperimento organico, in quanto si occupava dell’assistenza più urgente: quella morale. E difatti, ogni volta che uno -dopo aver congiurato un po’ curvo sul tavolo – firmava il foglio con la famosa dichiarazione d’obbedienza al Grande Reich, il tenente catanese si alzava in piedi e porgeva la mano al nuovo camerata: «Mi congratulo con voi di aver aderito alla giovane repubblica italiana». E il sottufficiale tedesco approvava gravemente col capo come per significare che l’Asse gioiva intimamente dell’avvenimento. Era la prima volta che vedevo un soldato italiano col nuovissimo emblema repubblicano del gladio incoronato di quercia. E sentii spaventosamente straniera quella divisa che pure era identica alla mia. E quel soldato, che pure apparteneva alla mia stessa terra, sentii straniero e nemico più ancora del tedesco che gli stava al fianco.

Giovannino Guareschi, Ritorno alla base, Milano, Rizzoli, 1989

Chi non aderisce sa che rischia molto.

Mi tornano in mente le pagine del diario di Giovanni Milanese in cui i compagni lo invitano ad accettare di lavorare -è ormai nel suo ultimo campo, a Wietzendorf- perché è denutrito e se lavorasse i tedeschi lo nutrirebbero di più.

Morire ma non optare, leggo inciso su una tazza proveniente dal lager lazzaretto di Zeithain:

Incisione di Mario Turi, marzo 1944

L'orgoglio dei 650mila internati italiani che non aderiscono emerge con chiarezza da queste due bandiere: 

Tricolore dal Lager di Mittelbau-Dora. Donato al Museo dal cav. Sisto Santin,
che lo definisce "il più caro dei ricordi, intessuto di rischi, di patimenti e di speranza

Tricolore dal lager di Dortmund
Commovente la vicenda di questo lembo di bandiera. Quasi un lembo d'Italia.
Lembo della Bandiera del 383.mo Rgt. Fant. Venezia

Il 9 settembre 1943 a Tirana, il comandante del 383.mo Reggimento Fanteria "Venezia" decide di distruggere la bandiera reggimentale, dividendola in tanti lembi. 

"Erano le 17, ed il momento fu indescrivibile: era per noi il distacco più angoscioso dalle nostre famiglie, dall'avvenire, da ogni speranza. Io ho avuto questo lembo, che ho riportato in patria facendolo sfuggire alle numerose perquisizioni operate nei Lager di Meppen, Versen Biala-Podlaska, Sandbostel, Wietzendorf", scrive Andrea Fiorini, tenente comandante la compagnia comando del 383.mo Reggimento Fanteria "Venezia", che ha donato al Museo dell'internamento il lembo da lui ricevuto.

In questa metafora del paese allo sbando che era diventata l'Italia nei drammatici giorni dopo l'armistizio, leggo lo sforzo di custodire i frammenti di un simbolo, per ricostruirlo insieme dopo la tempesta e continuare a indentificarvisi.

Sì, gli oggetti di un museo parlano.


Per approfondire:

Questo è il sito del Museo dell'Internamento di Padova:




Visita al Museo dell'Internamento di Padova, 2 -continua-

G.V.

21 luglio 2023

CAVALLI 8 UOMINI 40

Cavalli 8 uomini 40
Al Museo dell'Internamento di Padova leggo il cartello affisso alla riproduzione di un treno utilizzato per la deportazione dei soldati italiani nei campi di prigionia del Terzo Reich e mi accorgo che queste parole non sono solo quelle di un ritornello che ora non riesco a togliermi dalla testa. 
Sono l'unità di misura di un treno merci, l'unità di misura della deportazione.
Penso ai miei concittadini che sono stati su un vagone come questo, dal settembre al novembre del 1943 e poi nei mesi successivi fino alla liberazione, da un campo all'altro, a volte da un paese all'altro, in inverno e in estate. 
Da un anno e mezzo cerco notizie su di loro ma non ne conosco ancora il numero preciso; alcuni resteranno ignoti, anche con ricercatori meno improvvisati di me. 
Penso agli altri, 650 mila in totale: di quanti non resta memoria, già oggi? Trasportati su treni merci perché non erano più considerati uomini, per arrivare in un campo in cui non sarebbero stati considerati nemmeno prigionieri di guerra. 
Entrato nel vagone, leggo la testimonianza di un deportato:

Il vagone, nuda scatola nera, ci inghiotte. Qualcuno butta dentro una balla di paglia, giaciglio e sedile per 40 uomini. Siamo in 53. La porta si chiude sull'ultima luce del tramonto. Apro lo sportello di uno dei quattro pertugi, alti, senza vetri, sulle estremità delle opposte pareti.  [...] Ci stendiamo, due a due, una coperta sulle gambe piegate, l'altra sulle spalle e sulla testa. La candela viene spenta. La fiammella rapida di un cerino o di un accendisigaro dà risalto, ogni tanto, a quel grumo d'uomini curvi, imbacuccati nelle coperte, la testa cacciata fra le ginocchia. [...]. E' come lo squarciarsi saltuario di un velo nero su una scena bestiale, una specie di "rivelazione" che ognuno ha, attraverso la visione complessiva, della miseria propria. [...] Poi riattacca la strascicata sinfonia ferrata delle ruote, lo sbatacchiare dei ganci d'attacco, i cigolii della vecchia scatola che pare sfasciarsi. [...] Nevica, largo e fitto. Dentro, le pareti del vagone, sotto agli spiragli, alle fessure e ai buchi, sono coperte da grosse formazioni di ghiaccio.

Giuseppe Zaggia, Filo spinato, Venezia 1945 

La rivelazione della propria miseria, attraverso la visione complessiva di uomini ridotti ad animali: guardo gli altri e mi accorgo di non essere più nulla. È l'opposto del canto di Ulisse, in fondo: fatti non foste a viver come bruti.
Treno merci, uomini, cavalli: è come se qui dentro i confini fossero diventati indistinti.
Il mio maledetto vizio delle comparazioni letterarie mi riporta alla mente le pagine drammatiche in cui Levi accusa i tedeschi di "violenza inutile", cioè gratuita. Da quel capitolo mirabile, il quinto de I sommersi e i salvati, mi torna alla memoria una frase che riassume la lotta per conservare la propria dignità: non siamo ancora bestie, non lo saremo finché cercheremo di resistere.
Entro nel museo e mi colpiscono subito i plastici che riproducono alcuni campi.
Uno è quello di Sandboster, tra Brema e Amburgo. 
Ricordo che è uno dei campi di cui parla un mio compaesano, Giovanni Milanese, nel suo diario.
Leggo che dopo l'8 settembre 1943 ha ospitato 67 mila internati militari italiani; in totale, in sei anni, 300mila prigionieri di 67 paesi, impiegati nell'agricoltura o nell'industria bellica; 50mila di loro, si calcola, sono morti di fame, di malattia o per le violenze subite.
Su un altro campo ho un po' più informazioni: è il campo di Giovannino Guareschi, l'autore di Don Camillo e Peppone, il campo di Alessandro Natta, segretario del PCI dopo Berlinguer; per me, è soprattutto l'ultimo campo in cui è stato prigioniero Giovanni Milanese (dal novembre 1944 alla liberazione): è l'Offizierlager 83, a Wietzendorf, a 50 chilometri da Hannover.  
Leggo le brevi informazioni accanto al plastico e mi torna in mente il concetto di unità di misura. In ogni camerata erano alloggiati da un minimo di 52 fino ad oltre 90 ufficiali, ma i posti letto erano sempre 52 per cui gli esuberi dormivano sui tavoli o a terra. 
Comprensibilmente, Giovanni Milanese saluterà la liberazione con queste parole: "Sono di nuovo un uomo e non più un numero".

Per approfondire:
👉Rapporto sul campo 83 Wietzendorf, del tenente colonnello Pietro Testa

Il post del blog "la ràdica" dedicato alla liberazione di Giovanni Milanese dal campo di Wietzendorf:

Questo è il sito del Museo dell'Internamento di Padova:



Visita al Museo dell'Internamento di Padova, 1 -continua-
G.V.


16 luglio 2023

L'INVOLONTARIO ARTEFICE

Avevamo vinto, avevamo sacrificato il fior fiore della nostra gioventù [...]. Ci si contendevano i termini [=i confini] sacri della Patria e c'erano in Italia dei democratici la cui democrazia consiste nel fare l'imperialismo per gli altri e nel rinnegarlo per noi (applausi) che ci lanciavano questa stolta accusa semplicemente perché intendevamo che il confine d'Italia al nord dovesse essere il Brennero dove sarà fin che ci sarà il sangue di un italiano in Italia (applausi). Intendevamo che il confine orientale fosse al Nevoso [in Slovenia] perché là sono i naturali giusti confini della Patria e perché non eravamo sordi alla passione di Fiume e perché portavamo nel cuore lo spasimo dei fratelli della Dalmazia perché infine sentivamo vivi e vitali quei vincoli di razza che non ci lega soltanto agli italiani da Zara a Ragusa ed a Cattaro [in Montenegro] ma che ci lega anche agli italiani del Canton Ticino, anche a quegli italiani che non vogliono più esserlo, a quelli di Corsica a quelli che sono al di là dell'Oceano, a questa grande famiglia di 50 milioni di uomini che noi vogliamo unificare in uno stesso orgoglio di razza (applausi). 
[...] Noi italiani del secolo XX abbiamo veduto la grande tragedia del compimento nazionale, noi che portiamo nel profondo del nostro animo il ricordo di tutti i nostri morti che sono la nostra religione, noi o cittadini d'Italia facciamo un solo giuramento un solo proposito: vogliamo essere gli artefici modesti ma tenaci delle sue fortune presenti e avvenire.

E' il 3 aprile 1921, la domenica dopo Pasqua, e al Teatro Comunale di  Bologna si tiene l'adunata dei fasci emiliani. Le parole di Benito Mussolini, non ancora Presidente del Consiglio, sembrano già preannunciare un futuro di guerra che incombe sull'Italia: ci penserà il regime fascista a inculcare nelle menti e nei cuori degli italiani l'obiettivo di essere artefici della gloria della patria, a ogni costo, attraverso una politica espansionistica in nome dei "naturali giusti confini" e dell' "orgoglio di razza".

In quella stessa domenica a Valva nasce Domenico StrolloI genitori sono Francesco e Maria Giuseppa Cuoco.

La carriera militare

Il 4 maggio 1940 Domenico è dichiarato abile e arruolato.

Chiamato alle armi il 6 gennaio 1941, è assegnato al 43.mo Reggimento artiglieria in Africa Settentrionale, addetto al deposito munizioni e attrezzature; vi resta fino all'ottobre 1941.


Dai documenti risulta che la sua prima campagna di guerra è quella in Balcania: l'8 ottobre 1941, infatti, Domenico Strollo viene trasferito al 48.mo Reggimento artiglieria mobilitato in Montenegro, dove resterà fino al 29 agosto del 1942. 

Il Reggimento artiglieria "Taro" è un reparto della 48.ma Divisione di fanteria "Taro". Dopo la resa della Grecia, nell'aprile 1941, la Divisione è stata trasferita in Montenegro per presidiare il territorio e reprimere la resistenza locale.

L'occupazione italiana del Montenegro inizia con l'invasione del Regno di Jugoslavia, nell'aprile del 1941; nel luglio 1941 inizia un'insurrezione generale da parte della popolazione e dei partigiani comunisti. I rinforzi consentono al corpo di occupazione italiano di riprendere il controllo della situazione in circa un anno. I partigiani torneranno in Montenegro nella primavera del 1943, tanto da rendere necessario l'intervento delle truppe tedesche a sostegno della repressione italiana.  (fonte

La Divisione rientra in Italia nell'agosto 1942 -e infatti nel foglio matricolare di Domenico leggiamo la data del 29- e viene dislocata in Piemonte, nella zona di Alessandria-Novi Ligure, per poi trasferirsi in Francia a novembre (il 10, leggiamo nel foglio matricolare).

Domenico si trova nella Francia meridionale, a nord di Tolone, lungo la costa nella zona di Cuers, tra Mèounes-lès-Montrieux, Pierrefeu e Carnoules.

Nel 1943 la Divisione resta nella Francia meridionale, a presidiare la zona a nord di Tolone e a est del porto, fino a settembre.

L'Italia occupa la Francia meridionale tra il 1940 e il 1943, fino all'armistizio dell'8 settembre. La Divisione Taro è impegnata -nel XXII Corpo d'armata- nella difesa del cosiddetto Primo settore, che si estende dal lago di Ginevra sino a Bandol.  
I partigiani francesi approfittano della caduta del fascismo per attaccare le forze di occupazione italiana, che fino a quel momento hanno mantenuto una linea morbida; nuove disposizioni restrittive in materia di ordine pubblico non vengono realmente attuate a causa della fine dell'occupazione italiana. 
Il governo di Pietro Badoglio dà inizio al ritiro delle truppe, ridislocandole in Italia. Si prevede di lasciare truppe italiane solo nel saliente nizzardo compreso tra il confine e la linea Tinea-Varo. L'Italia si impegna a lasciare alla Germania il pieno controllo dell'area entro il 9 settembre.  (fonte)

In questa bella foto con i suoi commilitoni,
Domenico Strollo è con la camicia chiara, senza giacca.

La cattura e l'internamento in Germania

L'8 settembre 1943 viene reso noto l'armistizio firmato con gli Alleati e inizia una nuova fase della guerra.

L'8 settembre l'evacuazione delle truppe italiane non è ancora completata: circa 100mila uomini sono lasciati nelle mani dei tedeschi, che impegnano contro gli italiani tre divisioni con mezzi corazzati e motorizzati. Gli italiani cercano di resistere ma molti sono costretti alla resa. I soldati che riescono a evitare la cattura cercano di riorganizzarsi in territorio italiano, con un ripiegamento nella zona di Cuneo-Mondovì; l'11 settembre, però, dopo aver isolato il grosso delle truppe italiane, i tedeschi hanno già conquistato Torino, Alessandria, Asti, Alba, Bra e Vercelli.  (fonte) 

Domenico Strollo risulta fatto prigioniero dei tedeschi già il giorno 9. Come molti suoi commilitoni, inizia la deportazione in Germania, finalizzata al lavoro coatto.

Un altro valvese si trova in Francia in questi giorni, ma riesce a sottrarsi alla prigionia e trova ospitalità presso una famiglia borghese a Pianfei, in provincia di Cuneo: è Michele Cecere, che aderirà alla lotta partigiana dal luglio 1944 al giugno 1945.

Sappiamo con certezza che Domenico Strollo è prigioniero in Germania: risulta nello Stalag VI D, a Dortmund. 

Stalag VI, Dortmund; fonte

Sul sito di Ravizza Editore troviamo alcune preziose informazioni sullo Stalag VI. 
Dopo i bombardamenti del maggio 1944, nei quali persero la vita oltre cento prigionieri, le condizioni dei vita diventano catastrofiche: l'unico ingrediente dei pasti sono le patate. Il campo sarà completamente distrutto nei mesi successivi; verranno installate grandi tende (da 400 a 500 prigionieri) divise per nazionalità. 
Molti prigionieri riescono a fuggire, approfittando dei bombardamenti. Particolarmente grave il bilancio del bombardamento del 12 marzo  1945, che provoca moltissime vittime, anche a causa del divieto di accesso ai rifugi sotterranei della città di Dortmund per i prigionieri di guerra. 
Secondo un racconto orale raccolto dal nostro blog, anche il valvese Minente Figliulo è riuscito a fuggire in seguito a un bombardamento. 
I due compaesani si saranno incontrati nel campo?

fonte

Prigionieri di guerra nello Stalag VI; fonte

Il 7 aprile 1945 (oppure l'8 maggio, secondo altri documenti) Domenico Strollo viene liberato dalle truppe alleate, che lo trattengono fino all'11 agosto.

Il figlio Francesco ricorda che Domenico era impiegato in un'azienda agricola. Non siamo ancora riusciti a trovare documenti più precisi in merito.

Una geografia appresa in guerra

Soldato in Africa, poi impegnato su due fronti di guerra in Europa, infine internato militare in Germania: la geografia che Domenico Strollo ha imparato sui campi di battaglia e in quello di prigionia testimonia le conseguenze della politica espansionistica del regime fascista -già accennata in quelle lontane parole pronunciate, mentre egli stava nascendo, da Mussolini a Bologna- e la rottura dell'Asse, prodotta dall'armistizio dell'8 settembre 1943; una rottura che ha reso particolarmente duro l'atteggiamento dei tedeschi verso i soldati italiani. 

In questo significativo fotomontaggio, accanto a Domenico Strollo
ci sono due figli carabinieri: Mario (sx) e Francesco

Approfondimenti

Un video sulla presenza italiana nei Balcani: 1941: Italia in guerra- Fuoco nei Balcani

Il blog "la ràdica" ha dedicato il podcast IL GIORNO DOPO alle conseguenze dell'8 settembre 1943, dal punto di vista dei soldati valvesi; in particolare, Domenico Strollo viene citato nell'episodio 🎧La prima resistenza, terza parte; si veda anche il post 👉Otto valvesi prigionieri.

Alla figura del partigiano Michele Cecere il blog "la ràdica" ha dedicato diversi post:


Il blog Gozlinus ha dedicato un bel post a Mario Strollo, figlio di Domenico, tenente dell'Arma dei carabinieri. 

Un cordiale ringraziamento ai figli Gerardo, Mario e Francesco per la gentile collaborazione.

G.V.