Ci sono conversazioni speciali.
Lo sono anche se hanno bisogno della mediazione di una persona che ripeta le parole con voce più forte per far capire la domanda e anche se a volte occorre ricostruire la risposta, col rischio di fraintenderla o di impoverirla; sono speciali forse anche perché il timore di stancare la difficile concentrazione di un uomo di cento anni ti spinge ad aumentare il ritmo delle domande, col rischio di sottoporre l'interlocutore a una sequela incalzante che fa irruzione nella sua quiete.
E allora dal passato riemergono schegge di storie, ricordi, luoghi.
La voce è flebile, ma ha ancora dei guizzi non privi di ironia; a volte accompagna le risposte con un sorriso amaro, altre volte si lascia andare a una risata; capita anche che ripeta la domanda, come a dire che gli sembra strana (e in alcuni casi è difficile dargli torto).
Lui è Giuseppe Feniello e grazie alla figlia e alla nipote ho l'onore di chiacchierare con lui la domenica di Carnevale, pochi giorni prima del suo centesimo compleanno.
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Giuseppe Feniello soldato; per la foto, ringraziamo la nipote Rosa Feniello |
Quando, alla fine di oltre due ore di conversazione, facciamo timidamente notare che gli abbiamo fatto "una testa come un tomolo" (espressione dialettale che si riferisce alla gran quantità di domande), lui prima conferma, sornione, "accussì m' par", poi regala l'ennesima perla del pomeriggio: "so' cos ca ven'n a galla" (sono cose che vengono a galla).
La nipote Gerardina gli aveva già fatto l'intervista che abbiamo pubblicato sul nostro blog con il titolo I racconti dell'ultimo combattente.
Ora ne approfittiamo per chiedergli qualche altro dettaglio, alcune precisazioni, per fargli domande su altri argomenti; in fondo, però, oggi siamo qui per chiedergli di parlare e qualunque cosa dirà sarà importante, perché i ricordi di un uomo di cento anni non possono seguire la scaletta di chi gli fa le domande.
Per agevolare la lettura, dividiamo in punti la nostra conversazione.
La guerra e la cattura
Giuseppe Feniello ha visto poco la guerra: in Tunisia, dal 28 febbraio al 6 aprile 1943; dichiara di non aver mai sparato.
Ricorda le fasi della cattura: ai soldati italiani non è stato intimato di alzare le mani, ma sono stati costretti a camminare con le armi puntate alle spalle.
Racconta allegro un episodio curioso: ha nascosto 50 lire nell'orecchio per non farsele togliere dagli inglesi.
Dei vari trasferimenti nei campi di prigionia, ne ricorda uno in particolare: quello da Tripoli ad Alessandria d'Egitto, via mare. Avevano il salvagente nel timore di un bombardamento dei tedeschi, che non c'è stato perché questi hanno capito che a bordo c'erano tedeschi e italiani.
Il campo di prigionia
Mettiamo davanti a zio Giuseppe un disegno che ricostruisce un campo di prigionia alleato in Africa.
Ricorda il filo spinato, dice che vivevano in tende e baracche (in cinque o sei persone, a volte un po' di più); dormivano su brande, ogni campo aveva una cucina, eventuali lavori venivano svolti sempre nel campo.
Ricorda anche delle visite della Croce Rossa (dice più volte "svizzeri") e parla della celebrazione della messa nel campo, la domenica; racconta che lui e i suoi compagni un giorno hanno detto al cappellano: "Tu sei libero, noi siamo prigionieri".
Zio Giuseppe ha avuto paura di morire quando è stato ricoverato in un ospedaletto da campo, per problemi intestinali. Vedeva altri ricoverati morire, "uno sì e uno no, poi [la morte] arrivava a me e passava oltre".
Conferma che il lavoro da fare non era molto, aggiunge che i prigionieri potevano lavarsi perché avevano a disposizione l'acqua e parla del cibo: in alcuni campi, come ad esempio ad Alessandria d'Egitto, mangiava solo una patata al giorno.
Nell'intervista citata, ha raccontato che mettevano insieme la porzione di farina individuale e lui preparava dei cavatelli.
Oggi aggiunge altri due elementi: gli acquisti e la corrispondenza.
Con i pochi soldi che avevano, i prigionieri potevano fare degli acquisti perché all'interno del campo entrava qualcuno a vendere.
Le lettere venivano sottoposte alla censura, arrivavano con molto ritardo (anche di diversi mesi) e lui ricorda di aver appreso proprio da una lettera che anche suo fratello Michele era stato fatto prigioniero in Africa.
Un episodio di solidarietà
Nella fase finale della prigionia, lavorava in un magazzino.
Dava sempre da mangiare a un uomo che andava a chiedergli qualcosa perché aveva fame (un po' di pane, del cibo in scatola).
Alla notizia dell'imminente liberazione di Giuseppe, il povero era preoccupato perché temeva di non poter avere più cibo. "Mangerai comunque, ci sarà qualcun altro al mio posto", gli disse per confortarlo. Lo racconta con una certa soddisfazione, come se fosse orgoglioso di essere riuscito a comunicare con chi parlava un'altra lingua: ripete più volte, gesticolando, "a furia di", che interpretiamo come un riferimento all'intesa che nasce dall'esperienza dell'altro.
Il rapporto con il fascismo
C'è una bella foto degli Anni Trenta: presenta un gruppo di valvesi in camicia nera, in montagna.
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Anni Trenta, Camicie nere in montagna; fonte |
Zio Giuseppe riconosce un compaesano e dice che lui non ha foto in camicia nera, perché quella che gli avevano dato aveva un bottone rotto e non l'ha mai indossata, per ripicca.
Non è semplice riuscire a parlare di questioni complesse come ad esempio i rapporti con i tedeschi e gli Alleati: da che parte stavi dopo la prigionia, quando alla radio arrivavano le notizie dell'Armistizio e del cambio di alleanza dell'Italia, cosa pensavi del regime, del re, di Badoglio.
Quando zio Giuseppe sente nominare il Re, ricorda che era "andato via" e racconta che lo chiamavano "pippetta".
Di Mussolini ricorda il modo di dire valvese, pieno di sarcasmo popolare: "Ducə Ducə, cum n' e' fatt arr'dducə" (Duce Duce, come ci hai fatti ridurre; il detto continua dicendo che ormai siamo senza pane e senza luce). In fondo basta un verso ironico, di chiara origine popolare, per demistificare la retorica di un regime.
La nipote Gerardina ricorda che da bambina il nonno le diceva che l'errore di Mussolini è stato quello di allearsi con Hitler.
E' probabile che le politiche agrarie del regime abbiano riscosso invece il suo consenso.
Di Mussolini apprezzava quello che oggi chiameremmo buon uso dei mezzi di comunicazione: "se passava per un campo e vedeva uomini lavorare -ha detto una volta alla nipote- prendeva una zappa e si faceva fotografare".
Un'analisi ineccepibile.
E il fascismo a Valva, com'era vissuto?
Il "sabato fascista" non si doveva lavorare, ma zio Giuseppe racconta che chi aveva la terra ci andava; continua: "A volte due o tre fascisti bloccavano le vie per impedire di andare in campagna il sabato, ma si trovava un'altra strada e si andava lo stesso...".
E il marchese, era fascista?
"E chi lo vedeva..."
Un breve, ma significativo, scambio di battute
- Con quale stato d'animo sei andato in guerra?
- Eri un soldato e dovevi andare.
- Ma pensavi a Valva, alla famiglia?
- Embe', nun vuliv p'nsa'?
Nella saggezza da uomo nato un secolo fa, spero che zio Giuseppe perdoni la raffica di domande, comprese queste ultime due che solo chi non c'era può fare.
Un caloroso grazie alla figlia Nadia e alla nipote Gerardina e un abbraccio affettuoso al genero Angelo.
G.V.