30 luglio 2025

LA RÀDICA SETTIMANALE: LA NOSTRA NEWSLETTER

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la ràdica

G.V.

28 luglio 2025

MARIANNA, CHE SCIVOLÒ NEL POZZO A PRIMAVERA

Un nome, un volto, un luogo.
In un piccolo borgo, ogni decennio ha un episodio che li racchiude e li assume come simbolo.
Forse, per gli anni Trenta, a Valva il nome è quello di Marianna; il volto è il suo, dall'espressione fiera e serena, con la dignità silenziosa di una giovane e forte contadina; il luogo è un pozzo.
L'episodio che li comprende è rimasto nella memoria della comunità.

Marianna scivola in un pozzo in un giorno di maggio, mentre sta vivendo la sua primavera, a ventuno anni. 
Nessuno sa esattamente come sia accaduto, ma ogni generazione ha sentito parlare di lei.
Ecco una possibile ricostruzione dei fatti.
La ragazza sta pulendo le verdure, la cosiddetta minestra; ha già messo sul fuoco la callara, l'ampio recipiente di rame smaltato. Il grembiule è annodato, come sempre.
Forse Marianna si sporge troppo, il secchio s’impiglia. Forse la pietra è umida e lei inciampa, cade, batte la testa.
Dicono che il fratello Salvatore, di nove anni più grande di lei, sia riuscito a sollevarla con l'uncino, il lungo bastone di legno dalla punta ricurva che si usa nei lavori dei campi.
Salvatore si sporge, vede il grembiule gonfio che affiora nell'acqua del pozzo. Allunga l'uncino e aggancia il cinto della sorella, il laccio del grembiule che ogni mattina Marianna lega attorno alla vita, prima di cominciare la giornata.
Il corpo torna alla luce, ma Marianna è già lontana.
Tra i fratelli in lacrime, il più giovane è Francesco. Ancora non sa che tra dieci anni il destino lo porterà lontano, in una terra straniera da cui non farà ritorno.
La storia di Marianna, correndo tra le bocche del piccolo borgo, nel corso del tempo ha assunto anche altre tinte, quelle del rosa e del giallo.
A distanza di quasi un secolo, preferiamo restare alla ricostruzione più semplice: una giovane contadina che scivola in un pozzo, a primavera, e vola su una stella come in una tenerissima canzone di De André.

Il nome della nonna
Marianna ha il nome della nonna materna (Cappetta); per la verità nell'atto di nascita la bambina è registrata col nome di Maria Anna. 
È il 3 aprile 1910.
Davanti al segretario Elia Merolla (padre di un soldato morto in guerra, Biagio), compare Vito Feniello, cinquantenne, contadino, che dichiara che il giorno prima, in corso Umberto Primo numero 9, da Donata Torsiello, anche lei contadina, è nata Maria Anna Feniello.

Vito e Donata si sono sposati nel luglio 1896. 
Testimoni dell'atto di nascita della bambina sono Michele Spiotta (sarto) e Giuseppe Torsiello (spaccamurate). 
Un elemento insolito per l'epoca: anche il papà firma. Spesso gli atti di nascita recano solo la firma del sindaco o dell'ufficiale dell'anagrafe e spesso (ma non sempre) quella dei testimoni. E' raro che a firmare sia il neogenitore, soprattutto quando è un contadino. Il testimone Giuseppe Torsiello compare anche in altri atti; possiamo ipotizzare che lo "spaccamurate" (salvo errori nella lettura dell'atto) fosse un manuale specializzato nell'estrazione e nella frantumazione della pietra; il termine potrebbe essere una variante dialettale del più generico "spaccapietre".
Nell'uso quotidiano, il nome diventa presto Marianna, visto che così compare nell'atto di morte.
Il 27 maggio 1931, alle ore 9, davanti al commissario prefettizio Antonio Masi compaiono Pietro Falcone (bettoliere) e Antonio D'Ambrosio (contadino). 
Dichiarano che alle ore sei del giorno precedente, in contrada Bosco, è morta Marianna Feniello, di 21 anni, nubile. 
Sono presenti all'atto, in qualità di testimoni, Alessandro Di Florio (falegname) e Francesco Strollo (possidente).

Nell'atto, la voce NELLA CASA POSTA è cancellata: è questo l'unico indizio che fa pensare a una morte per incidente.
Quella di Marianna è stata una primavera interrotta.
Di lei però non rimangono solo poche righe in un registro dell'anagrafe; rimangono il suo nome trasmesso nella famiglia, il suo ritratto (a cura del fotografo e pittore Giacomo Feniello) custodito in alcune case, il suo ricordo tramandato nei racconti, come una voce che non si spegne.
Come una rosa, che vive un solo giorno e diventa emblema della giovinezza.

Un sentito ringraziamento a zia Fedora D'Ambrosio e a Michela Feniello per la preziosa collaborazione.
G.V.


25 luglio 2025

FUOCO DALLA TERRA E DAL CIELO: IL LAMPO SISMICO

Secondo appuntamento del nostro percorso attraverso la memoria del terremoto che nel 1930 ha colpito l'Irpinia e il Vulture.

Tra i tanti racconti legati a quella notte terribile, uno degli elementi più ricorrenti e misteriosi è il cosiddetto lampo sismico: una luce improvvisa, intensa, apparsa nel cielo poco prima o durante la scossa. Numerose testimonianze lo descrivono, lasciando spazio a domande e ipotesi che ancora oggi affascinano.

Lo studioso G.B. Alfano racconta che durante il terremoto in molti comuni furono osservati fenomeni luminosi chiamati “lampi sismici”. 
Ecco, in sintesi, le informazioni da lui raccolte; spesso è indicato il nome del testimone:
  • Ariano di Puglia: lampo osservato due ore prima della scossa; al momento della scossa, il lampo riapparve, rossastro (Sac. Nicola Scarpellino).
  • Villanova: lampo tanto intenso da sembrare luce diurna, specialmente nelle campagne.
  • Gesualdo: visione di Frigento avvolto da una viva luce (Rosa Maruzzo).
  • Frigento: fuoco violaceo emergente dal suolo (Italia Pelosi).
  • Candela: bagliori rosso-cupi verso le zone più colpite (Prof. Alfredo Boselli).
  • Bisaccia: fiamme nei campi ad oriente, simili a gas in fiamme (Can. Nicola Giurazzi).
  • Lacedonia: un contadino vide un fuoco spaventoso tra sé e le case, che poi crollarono (Prof. Immanuel Friedlaender).
  • Melfi: fiamme da un crepaccio apertosi al momento della scossa (Prof. Friedlaender).
"...fuoco violaceo emergente dal suolo"
  • Sant'Agata di Puglia: lampo tra due montagne e odore di zolfo (Laura Rampino).
  • Altavilla: bagliore rossastro visibile.
  • Avellino: lampo rosso attraverso i balconi scossi (Emilia Rossi).
  • Baiano: fiamma visibile pochi secondi prima della scossa – interpretata come lampo anticipato rispetto alle onde sismiche.
  • Cervinara: vampe nell’aria (Abate Angelico Mancini).
  • Castelfranco in Miscano: lunga vampata da sud a nord.
  • Cusano Mutri: lampo osservato da pastori (Parroco De Nigris).
  • Vieste: lampo visto da marinai (Rosa Cimaglia).
  • Napoli: osservati diversi lampi anche dopo le scosse; in Piazza Plebiscito, visione di fiamme emergenti dal lastricato e palazzi avvolti da fiamme. (Celide Martino riferisce un lampo rosso sulla città). 
All’inizio si pensò che questi lampi fossero causati da cortocircuiti nei fili dell’elettricità provocati dal terremoto, ma Alfano sottolinea che questa spiegazione non è sufficiente a giustificare il fenomeno diffuso e le diverse forme in cui si è manifestato.
Egli ipotizza che l’energia meccanica del terremoto, quando raggiunge una certa intensità, si trasformi in energia elettrica ad alta tensione, generando così questi lampi, specialmente in località con intensità sismica tra il grado VII e X.
Boati
I boati furono percepiti in quasi tutte le località con intensità sismica compresa tra il grado X e il grado III-IV. 
Ecco degli esempi significativi:
  • Villanova: suono simile a colpi di cannone, seguito dalle scosse.
  • San Nicola di Baronia: fruscio simile a vento, seguito da scosse forti.
  • Aquilonia e Apice: boati fortissimi per tutta la durata della scossa.
  • Paduli, Nusco: impressione di tempesta in arrivo.
  • San Giorgio la Molara: percezione iniziale di un "aeremoto".
  • Cervinara: vento impetuoso in avvicinamento (Abate Mancini).
  • Castelfranco in Miscano: simile al fischio di una sirena.
  • Altavilla Irpina: scosse precedute da folata di vento (Podestà Cosimo Caruso).
  • San Fele: percepita folata di vento (Pietro Caputi).
  • Capua: sensazione di vento impetuoso (Canonico Lombardi).
  • Laviano: rumore simile a grandinata, seguito da odore di gas (ozono?) (Arciprete Angelo Ceriello).
  • Venosa: forte rumore come una grandinata (Podestà Bagnoli).
  • Potenza: vento impetuoso percepito (Matilde La Scala).
  • Salandra: simile a un temporale in arrivo (Maria Uricchio).
  • Manfredonia e Vieste: urlo di vento (Rosa Dimaglia).
  • San Fele (notti successive): boati continuati.
Leggiamo direttamente un brano del suo lavoro:

E' da ritenere che i colpi istantanei, come scoppi di cannone, siano dovuti alla frattura dello strato terrestre donde irradiò la scossa e che i boati siano prodotti dalle vibrazioni dei bordi dello strato fratturato.

Alfano sottolinea che non è possibile che il suono preceda il sisma, perché le onde sismiche viaggiano a circa 7500 m/s, molto più velocemente del suono (340 m/s). È probabile che l’essere umano percepisca prima i boati perché non avverte inizialmente le vibrazioni del suolo. Solo quando queste superano una certa soglia (accelerazione di almeno 10 mm/s) si ha la percezione diretta del terremoto.

Questi racconto ci aiutano a comprendere nella sua complessità un evento drammatico, di 95 anni fa. Non solo la cronaca di un disastro naturale, ma anche il tentativo umano di comprenderlo attraverso l'osservazione e la testimonianza.

Fonti
Alfano G.B., Il terremoto irpino del 23 luglio 1930 (Pubblicazione dell’Osservatorio di Pompei). Pompei 1931; in:  www.ingv.it


                                                                                                                                             seconda puntata

G.V.

24 luglio 2025

23 LUGLIO 1930: UN TERREMOTO NELL'ITALIA FASCISTA

23 luglio 1930: terremoto dell'Irpinia e del Vulture. Tra tragedia e propaganda.

Un anniversario poco ricordato, ma che ancora racconta una storia di terra e di luce. Una luce sinistra, apparsa agli occhi sgranati dal terrore, come un lampo che ferisce; e poi il rumore della tempesta, come di vento impetuoso e scrocio di pioggia o di grandine.
Il  23 luglio 1930 è un mercoledì.
Un sisma di magnitudo 6,7 (X grado della scala Mercalli) con epicentro tra Lacedonia e Bisaccia colpisce l’Irpinia e il Vulture; le vittime sono 1404.
Abitanti fra le case crollate; fonte
Il giorno dopo, il Corriere della Sera -fascistizzato come tutti i quotidiani non clandestini- ci informa che le autorità governative, con Mussolini al comando, hanno reagito prontamente attivando soccorsi su larga scala. Treni, milizia, esercito e personale sanitario vengono inviati nelle zone colpite per prestare assistenza e portare materiali di prima necessità. Viene organizzata una rete di aiuti per sfollati e famiglie colpite, mentre tecnici e ingegneri iniziano a valutare i danni e a progettare la ricostruzione. La Duchessa d’Aosta e altri esponenti del governo visitano le aree terremotate per mostrare solidarietà e coordinare gli interventi. 
Leggiamo questo brano della cronaca riportata in prima pagina:

Il disastro è particolarmente grave nei paesi di campagna, per la struttura delle case. I modesti casolari sono infatti coperti di tetti pesantissimi, per i quali si utilizza materiale calcareo, allo scopo di renderli più resistenti all’infuriare dei venti: sicché dove sono avvenuti i crolli difficilmente chi ne è stato travolto ha potuto essere estratto ancor vivo.

Militi recuperano i cadaveri; fonte
Secondo il Corriere, dal punto di vista sociale il terremoto ha rafforzato il senso di comunità e di solidarietà fra le popolazioni colpite, che affrontano la tragedia con coraggio e spirito di cooperazione. Vengono promosse anche manifestazioni religiose, come a Salerno: una affollatissima processione allo scopo di rassicurare e unire la popolazione nell’angoscia.

Particolarmente significativo -a nostro avviso- un articolo di spalla sempre in prima pagina, dal titolo Sereni e pronti.

Compiangiamo con tutta l’anima i poveri morti: quasi tutti lavoratori di quelle feraci campagne, sempre minacciate dagli sconvolgimenti tellurici, come se il destino volesse farne pagare a caro prezzo la pittoresca bellezza; compiangiamo i superstiti, che hanno perduto i loro cari e gran parte dei loro beni. Ma soprattutto, prendiamo atto della calma, della serenità che il Paese, anche nelle regioni più vicine a quelle colpite dal terremoto, ha dimostrato nella triste circostanza.
Nessun panico artificioso, nessun smarrimento; passata la prima penosa impressione, tutti si sono prodigati nell’opera di soccorso, con una prontezza degna d’ammirazione: autorità civili e religiose, soldati, milizia volontaria, associazioni di beneficenza. Tutti sono stati pari al difficile compito. Le popolazioni hanno partecipato con uno slancio veramente splendido alle operazioni di soccorso; reprimendo il loro sacro dolore, esse hanno voluto contribuire in ogni modo ad alleviare le conseguenze del grave cataclisma.
Da Roma, come sempre, è partita la parola di incitamento e si è messo in movimento il meccanismo già preparato per simili eventi…
Sono questi i lati confortanti della disgrazia: non solo perché indicano i progressi dello spirito pubblico e degli organi responsabili, ma anche perché assicurano che, in ogni caso, le conseguenze d’ogni più inumano capriccio del Destino, saranno rese più lievi da provvedimenti adeguati e che non si ripeterà più, come in altri tempi, il caso che ritardi e incertezze nell’opera di soccorso possano rendere peggiori e magari irrimediabili gli effetti di quelle sciagure, alle quali ormai l’Italia è avvezza e contro le quali ha imparato a virilmente reagire.

Dall’articolo riportato emerge una notevole enfasi sulla rapidità e sull’efficacia dei soccorsi, per trasmettere l’immagine di un regime capace di intervenire con prontezza, a differenza di quanto accaduto in passato; probabilmente il riferimento è ai disastri del terremoto di Messina (1908) e della Marsica (1915). 
Colpisce in particolare l’attenzione dedicata alla calma e alla disciplina delle popolazioni colpite, che rappresenta una visione ideale della società fascista: ordinata, unita e capace di fronteggiare il pericolo senza panico o caos. 
L’articolo elogia inoltre la modernità dell’Italia fascista, sottolineando come il Paese sia in grado di gestire calamità in modo organizzato. 
Infine, il richiamo al ‘sacro dolore’ che va represso serve a celebrare il senso del dovere e la partecipazione a una gloriosa azione collettiva, quella di alleviare le conseguenze del cataclisma.

Nel successivo post ci occuperemo del fenomeno dei “lampi sismici”, sulla scorta delle testimonianze raccolte dallo studioso G.B. Alfano.

Fonti
Archivio Storico Corriere della Sera
Sito www.ingv.it, che riporta la prima pagina del Corriere della Sera del 24 luglio 1930

Crediti foto storiche:
Bundesarchiv, Bild 102-10191 / CC BY-SA 3.0 DE
Bundesarchiv, Bild 102-10192 / CC-BY-SA 3.0 DE

prima puntata- continua
G.V.

LA MEMORIA, IL DECORO E COME CI SIAMO RIDOTTI

Oggi sono in città.
Il lavoro di ricerca all'Archivio di Stato è impegnativo, ma io sono pronto: ho con me un collaboratore di prim'ordine e ci dividiamo i compiti.
Fogli matricolari, documenti del Gabinetto di Prefettura sulle inaugurazioni dei monumenti ai caduti nella Valle del Sele, un bel saggio storico che ricostruisce le vicende di alcuni monumenti nella provincia di Salerno.
Sono soddisfatto della mattinata di ricerche e anche del pranzo.
E' ora di prendere il pullman, bisogna procedere verso la fermata.

All'improvviso, mi fermo.
La vedo.
Non credo ai miei occhi.
Se non ci fosse un'auto parcheggiata un po' così, scatterei delle foto migliori, per far vedere che alle spalle del monumento c'è la stazione ferroviaria.
Davanti al monumento ai Caduti di tutta la provincia, c'è una porta.


Penso subito a un'installazione di arte postmoderna: una porta qui, una sedia e un cesso di là, e chi non capisce vuol dire che non si intende d'arte e allora si occupi d'altro, torni al paese.
Lo confesso: cerco in internet qualche informazione.
Non mi sorprende nulla, ormai; magari leggo che è stata inaugurata -tra fotografi in estasi e giornalisti festanti, come vedo sempre più spesso in giro per l'Italia- una nuova attrazione, dal titolo suggestivo e poetico (mi sembra di prevedere il lessico di alcuni devoti cronisti): La porta della memoria.
Però non trovo nulla e allora mi convinco che quella porta che è qui, davanti a me -e soprattutto davanti al monumento che ricorda il sacrificio di migliaia di soldati di tutta la provincia- è una porta priva di parete, uno scheletro di porta, senza significato.
Reagisco in maniera un po' concitata, ma forse ho difetti peggiori.
Mando le foto al sindaco, su Facebook.
So bene che non deve certo occuparsi lui di rimuovere i rifiuti dalla strada e che non può sapere tutto quello che succede in tempo reale nella sua città.
Però quando sono indignato ho bisogno di fare un po' di "ammuina", altrimenti finisco col firmare appelli o partecipare a convegni (non merito questo).
Ritengo importante attirare l'attenzione su un aspetto di decoro urbano e di rispetto per la memoria storica.
Una risposta preimpostata mi dice: "Siamo grati per averci scritto". Io ribatto che invece non sono grato per come viene tutelata "la memoria anche dei miei Caduti in guerra".
Caspita, qui ci sono anche i miei caduti in guerra, quelli di cui mi occupo da oltre tre anni, le cui tracce cerco nella polvere dell'Archivio di Stato o nei cimiteri e nei sacrari del Veneto.
Proprio nella polvere dell'Archivio di Stato, stamattina ho scoperto che alcuni miei concittadini (e chissà quanti altri in tutta Italia) hanno combattuto sia la Prima sia la Seconda guerra mondiale.
Altri, magari ventenni, dalla Prima non sono tornati.
Alcuni di loro erano troppo giovani per sposarsi senza il consenso dei genitori, ma evidentemente abbastanza grandi per diventare carne da cannone.

Il saggio sui monumenti della provincia, consultato stamattina, ha un titolo significativo: La memoria degli assenti.
Un titolo che mi piace interpretare come bivalente.
Come al liceo: il genitivo può essere soggettivo oppure oggettivo.
La memoria che hanno le persone assenti. 
Ma quale memoria possono avere i morti?
La loro memoria è sospesa, non è mai diventata racconto.
Eppure sappiamo che essi parlano. Il poeta ci invita a cessare di ucciderli e a iniziare ad ascoltarli: hanno una voce che è un "impercettibile sussurro", essi "non fanno più rumore del crescere dell'erba".
Se hanno una voce, gli assenti hanno anche una memoria alla quale attingere, per poter raccontare a noi.
Ma la memoria degli assenti può anche significare la memoria che abbiamo noi dei morti: è quella che coltiviamo noi, ricordando gli assenti, onorando i caduti. 
E' una memoria pubblica, civile. Ecco che un monumento, un sacrario, una semplice lapide servono a rendere concreta questa memoria. La memoria diventa istituzionalizzata.
Dopo la Grande Guerra, con un'enfasi e una retorica che oggi a volte ci sembrano eccessive, i caduti sono stati celebrati come martiri.
A distanza di cento anni, abbiamo la possibilità di trovare le parole giuste, per inquadrare il loro sacrificio nel preciso contesto storico.
Possiamo essere loro grati anche se non usiamo più i toni ferventi e patriottici degli anni Venti e io, nel mio piccolo, cerco di raccontarne le vicende: non mi interessa che siano eroiche, mi interessa che siano vicende di giovani che parlavano il mio dialetto e vivevano nei luoghi che mi hanno visto nascere e sbucciarmi le ginocchia.
Poi qualcuno pensa di lasciare una porta davanti al monumento dedicato a loro e a migliaia come loro...e allora non basta scriverlo al sindaco, mi dico, occorre coinvolgere anche la polizia locale (incontro qualche difficoltà, ma forse sbaglio io a inviare una mail con le foto in allegato: quante cose scopro oggi), ma non mi accontento: contatto l'Associazione Nazionale Combattenti e Reduci e mando le foto a un giornale locale (dal quale ricevo un altro messaggio preimpostato).
Qualcuno prima o poi mi risponderà, o forse nessuno.
Non importa, non mi importa leggere "abbiamo provveduto" o "grazie per la segnalazione".
A me interessa che qualcuno tolga quella porta.
Poi vorrei capire, se non chiedo troppo, cosa ci faceva lì.
Poi vorrei capire, ma ora temo di chiedere davvero troppo, come ci siamo ridotti.
G.V.

23 luglio 2025

IL RAGAZZO DI CASTELNUOVO CHE RIPOSA TRA LE MEMORIE

Un giovanissimo ed esile soldato di Castelnuovo di Conza (provincia di Salerno) riposa nel Sacrario di Fagarè, in una sala che ospita un piccolo museo commemorativo della Grande Guerra.
Una domenica di fine secolo
Il 23 luglio 1899 è una domenica. In Italia regna Umberto I (tra un anno esatto sarà ucciso a Monza), governa il generale Luigi Pelloux, promotore di leggi repressive; il Papa è Leone XIII. 
A Castelnuovo di Conza, in via Fontana, nasce Giuseppe Annicchiarico, figlio di Michelangelo Del Vecchio, contadino, e di Assunta Mariantonia De Rogatis. I genitori si erano sposati nel 1890; Michelangelo era orfano, mentre Assunta era figlia di Domenico (già deceduto) e di Filomena Giuliano.
Il soldatino che riposa tra le memorie della guerra
Abbiamo già raccontato la vicenda di Giuseppe, un giovane della classe '99 che muore sul Piave e ora risposa nel Sacrario di Fagarè della Battaglia, in provincia di Treviso.

La foto è stata scattata presso il Sacrario militare di Fagarè della Battaglia, come documento storico e in omaggio alla memoria di un soldato caduto durante la Prima Guerra Mondiale.  
Il loculo di Giuseppe è nella prima navata del Sacrario, dove è allestita una piccola stanza che ospita un museo. 
Si tratta di uno spazio raccolto, ma molto significativo, in cui sono esposti cimeli della Grande Guerra. Nelle teche si possono osservare uniformi, armi e munizioni originali, insieme a documenti, fotografie e oggetti personali. È come una rappresentazione tangibile del sacrificio di tanti giovani: armi italiane e austriache, oggetti di vita  quotidiana dei due fronti parlano con forza al visitatore di oggi, restituendo concretezza alle storie dei soldati e rafforzando il legame con i nomi incisi nei loculi vicini.
Ora che le armi tacciono, possiamo onorare la memoria dei caduti e, insieme, riflettere sulla tragica insensatezza della guerra.

Il foglio matricolare
In occasione del compleanno del giovane caduto, abbiamo consultato il suo foglio matricolare all'Archivio di Stato di Salerno.
Alla visita di leva Giuseppe misura 1,56 m. 
Nel 1915, la statura media dei maschi italiani registrata durante le visite di leva era di 1,66 m; questo dato proviene da una serie storica dell'Istat riferita a coscritti italiani di età compresa tra i 17 e i 20 anni. Dunque Giuseppe è di dieci centimetri più basso della media dei suoi coetanei. La circonferenza toracica del giovane è al limite minimo consentito dai regolamenti militari, ma comunque entro i parametri per l'idoneità.
Giuseppe ha i capelli castani lisci, gli occhi grigi, il colorito roseo, la dentatura sana; dichiara di essere un contadino e di non sapere né leggere né scrivere.
È arruolato come soldato di leva della terza categoria.

La prima categoria includeva coloro che risultavano pienamente idonei al servizio militare: venivano arruolati e destinati al servizio attivo. Nella seconda categoria rientravano i soggetti anch’essi idonei, ma non chiamati subito alle armi, perché eccedenti rispetto al fabbisogno; restavano in riserva e potevano essere richiamati in caso di necessità. Infine, la terza categoria comprendeva chi era esonerato dal servizio per motivi familiari o altri impedimenti, pur risultando tecnicamente idoneo. Tuttavia, in caso di guerra o mobilitazione generale, anche i soldati inizialmente assegnati alla seconda o terza categoria potevano essere richiamati e mandati al fronte.

Giuseppe viene chiamato alle armi il 13 giugno 1917, assegnato al deposito del 14° Reggimento  Fanteria, destinato alle truppe mobilitate in zona di guerra.
Nel precedente post che gli abbiamo dedicato, abbiamo riportato un'informazione tratta dall'Albo dei Caduti: Giuseppe è nel 244° Reggimento Fanteria quando risulta disperso sul Piave.
Le due notizie non sono necessariamente in contraddizione: Giuseppe Annicchiarico è amministrativamente legato al deposito del 14° Reggimento Fanteria ma operativamente è assegnato al 244° Reggimento, dove combatte fino alla scomparsa. Ricordiamo che dal "deposito" partivano i soldati che venivano assegnati al altri reparti combattenti.
L'ultima annotazione sul foglio matricolare recita: 
Disperso in guerra giusto riferimento Reali Carabinieri di Laviano. E' come dire: è disperso in guerra, lo attestano i carabinieri di Laviano.

Giovane Giuseppe, soldatino di Castelnuovo, perdonaci se ti abbiamo perso di vista.

Approfondimenti
Post dedicati alla vicenda di Giuseppe e al Sacrario di Fagarè:

La spiegazione sulle tre categorie di soldati è stata elaborata da ChatGPT, basandosi su documenti storici italiani relativi al servizio di leva durante la Prima Guerra Mondiale, tra cui fonti dell’Archivio di Stato e studi storici sul reclutamento militare in Italia.

G.V.

LA MASCHERA ANTIGAS, IL TELEGRAFO: LA GUERRA DI ARCADIO

Nuovo capitolo del nostro "La musa valvese. Il romanzo della famiglia Grasso". In questo episodio ci occupiamo di un soldato, pittore e autore di canzoni d'amore e religiose.
Il 12 febbraio 1898 Giacinto Grasso, quarantaseienne negoziante di Valva, davanti al sindaco Paolo D'Urso dichiara la nascita di un bambino, in via Sant'Antonio, al quale dà il nome di Arcadio Rodolfo Maria.
Testimoni sono due dipendenti comunali: il messo Donato Vacca e la guardia campestre Michele Cuozzo.
Alla visita militare, nel febbraio 1917, Arcadio dichiarerà di essere telegrafista.
Dal suo foglio matricolare apprendiamo che Arcadio è molto alto per l'epoca: 1,75m. Naso aquilino, mento regolare, occhi castani, colorito pallido, dentatura sana.
Viene arruolato come soldato di leva nella prima categoria e, venti giorni dopo, è chiamato alle armi.
È assegnato al deposito del 3° Reggimento Genio Telegrafisti.
E' arruolato come soldato di leva nella prima categoria.
Venti giorni dopo è chiamato alle armi.
Lo troviamo nel deposito del 3°Reggimento Genio Telegrafisti.
All’inizio del conflitto, il Reggimento mobilitò 24 compagnie telegrafisti: alcune assegnate direttamente al Comando Supremo, altre alle Armate e ai Corpi d’Armata, inclusi plotoni dislocati nelle fortezze di frontiera. Erano inoltre presenti sezioni radiotelegrafiste e compagnie di milizia mobile, oltre a una compagnia treno per il supporto logistico.
Durante la guerra, il numero delle compagnie crebbe progressivamente: nel 1916 e 1917 le sezioni telefoniche divisionali divennero vere e proprie compagnie telegrafiste, fino a raggiungere complessivamente 68 compagnie telegrafiste entro la fine del conflitto.
Tra i volontari di rilievo si annovera Guglielmo Marconi, che prestò servizio come ufficiale nel Reggimento, contribuendo all’impiego strategico delle comunicazioni radiotelegrafiche.
Il 23 dicembre 1917 Arcadio è mandato in licenza straordinaria di convalescenza di giorni ottanta. Il motivo non è indicato.
A marzo rientra, ad agosto avrà un'altra licenza di quattro mesi.
Da un prezioso post di Gozlinus, che si fonda su testimonianze raccolte nella famiglia Grasso, sappiamo che Arcadio è rimasto gravemente ferito dall'iprite, conosciuta come "gas mostarda", che provoca gravi ustioni alla pelle e danni all'apparato respiratorio.
Museo, Sacrario di Fagarè della Battaglia

Le armi chimiche nella Grande Guerra 
La Prima guerra mondiale rappresentò il primo grande conflitto in cui le armi chimiche vennero utilizzate in modo sistematico e su vasta scala, trasformando i campi di battaglia in veri e propri laboratori di morte. I gas venefici furono messi a punto da alcuni tra i più autorevoli scienziati dell’epoca, tra cui Fritz Haber, premio Nobel e figura chiave nello sviluppo del gas cloro a fini bellici.
Il 22 aprile 1915, durante la Seconda battaglia di Ypres, l’esercito tedesco impiegò per la prima volta il cloro gassoso, segnando un momento cruciale e inquietante nella storia della guerra moderna. Il gas, entrando in contatto con le mucose respiratorie, provocava gravi difficoltà respiratorie e spesso portava alla morte per edema polmonare.
Successivamente, furono introdotti agenti ancora più pericolosi:
  • Fosgene, un gas quasi inodore e difficile da individuare, che fu responsabile di circa l’85% delle vittime causate da armi chimiche.
  • Iprite, o gas mostarda, utilizzato a partire dal 1917, non provocava una morte immediata ma generava lesioni cutanee, cecità e danni polmonari; inoltre, contaminava l’ambiente circostante, rendendo inaccessibili trincee e materiali.
Nel complesso, le armi chimiche provocarono oltre un milione di intossicazioni e circa 100.000 decessi. Anche l’effetto psicologico fu devastante: molti soldati temevano l’arrivo del gas più dei proiettili, anche perché le maschere antigas spesso non offrivano una protezione efficace, e i sintomi dell’esposizione erano angoscianti.
L’orrore suscitato da questi nuovi strumenti di distruzione portò infine alla reazione della comunità internazionale: nel 1925 fu firmato il Protocollo di Ginevra, che proibiva l’uso delle armi chimiche in guerra, pur non vietandone la produzione o lo stoccaggio.

Il foglio matricolare presenta alcune incongruenze nelle date. 
In linea di massima, comunque, possiamo affermare che l'esperienza militare di Arcadio è stata sicuramente caratterizzata da frequenti licenze dovute a motivi di salute, come dimostra anche l'annotazione finale: riformato l'8 gennaio 1919.

Museo, Sacrario di Fagarè della Battaglia
Questo apparecchio telefonico da campo è esposto nella sala museo all'interno del Sacrario di Fagarè della Battaglia, in provincia di Treviso.
Era utilizzato dai militari per garantire le comunicazioni tra le diverse postazioni sul fronte. Realizzato in legno e dotato di una cornetta collegata tramite cavi, permetteva il collegamento diretto attraverso linee telefoniche cablate. 
Sul pannello frontale sono presenti selettori e comandi per impostare i canali di comunicazione, mentre il tasto telegrafico annesso consentiva l’invio di messaggi in codice Morse. 
Era uno strumento essenziale per il coordinamento tattico durante le operazioni belliche.
Tornato in casa, Arcadio vivrà in precarie condizioni di salute e morirà il 4 aprile 1929, a trentuno anni.
Davanti al cavaliere Antonio Masi si presentano due calzolai: Pietro Nicola Falcone e Michele Falcone; dichiarano che alle sei del mattino è morto Arcadio Grasso, di anni trentuno, possidente.
Arcadio risulta ancora residente in via Sant'Antonio; i genitori sono ancora in vita.
I due testimoni sono Angelantonio Porcelli, muratore,  e Giacomo Feniello, fotografo.
Gozlinus ha pubblicato l'elegante timbro che il fotografo-pittore apponeva sul retro delle sue foto:

fonte: Gozlinus
Concludiamo il racconto della vita di Arcadio Grasso con questo piccolo segno di bellezza, quasi un omaggio a un valvese la cui gioventù è stata portata via dalla guerra ma la cui sofferenza è stata certamente alleviata da uno spirito poetico, che gli suggeriva di scrivere canzoni d'amore, come quella che abbiamo cercato di analizzare nel post 👉 Il pudore romantico di Arcadio: tra canzone e preghiera.
Nel repertorio di Arcadio giunto fino a noi c'è anche un canto sacro, un'Ave Maria. Cercheremo di dedicare un post anche a questo testo.

Musa valvese: il romanzo della famiglia Grasso

Il blog Gozlinus ha dedicato questi interessanti post alla figura di Arcadio Grasso

Approfondimenti storici presenti nel post:
Gli approfondimenti storici contenuti in questo post sono stati elaborati con il supporto di ChatGPT (OpenAI), che ha sintetizzato e rielaborato informazioni tratte da fonti storiche accreditate, tra cui:
Archivio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano
Antonio Sema, La guerra chimica 1915-1918
Sito ufficiale del Sacrario di Fagarè della Battaglia
Dietrich Stoltzenberg, Fritz Haber: Chemist, Nobel Laureate, German, Jew
Protocollo di Ginevra del 1925 (documentazione ONU)
G.V.

20 luglio 2025

I 25 ANNI DELLA LEGGE SUL "GIORNO DELLA MEMORIA": UN CONFRONTO CON LA LEGGE SUGLI IMI

Venticinque anni fa, il 20 luglio 2000, veniva promulgata la Legge n. 211, che istituiva il Giorno della Memoria.
Questa ricorrenza, che si celebra ogni 27 gennaio, è nata con l’obiettivo di ricordare la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico); 

ricordare le leggi razziali e la persecuzione italiana contro i cittadini ebrei

commemorare gli italiani deportati, imprigionati e uccisi nei campi nazisti, inclusi i deportati militari e politici

Padova, Museo Nazionale dell'Internamento
onorare coloro che, anche in contesti e schieramenti diversi, si opposero al progetto di sterminio e, a rischio della propria vita, salvarono perseguitati e innocenti.
Padova, Giardino dei Giusti del Mondo

La legge promuove l’organizzazione di cerimonie, iniziative e momenti di riflessione pubblica, in particolare all’interno delle scuole di ogni ordine e grado.

La legge dedicata agli internati italiani
Il 13 gennaio 2025 è stata promulgata la Legge 6/2025, che istituisce la Giornata degli internati italiani nei campi di concentramento tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, da celebrarsi ogni anno il 20 settembre.
La scelta della data non è casuale: il 20 settembre 1943 Adolf Hitler decise di privare i militari italiani catturati dello status di prigionieri di guerra, classificandoli come Internati Militari Italiani (IMI). Questo significò l’esclusione dalle tutele previste dalle convenzioni internazionali e l’inizio di una prigionia durissima e a volte anche letale.
La legge si propone di conservare e valorizzare la memoria di quanti, dopo l’8 settembre 1943, rifiutarono di collaborare con le forze tedesche e la Repubblica Sociale Italiana, venendo deportati nei campi nazisti. Questo rifiuto collettivo è stato definito un “plebiscito antifascista”, una forma di resistenza non armata. 

Padova, Museo Nazionale dell'Internamento
Altri obiettivi della legge sono quelli di  riconoscere il valore morale e civile della loro scelta e di ricordare anche i militari italiani uccisi per essersi rifiutati di combattere a fianco dei nazisti, con riferimento, tra gli altri, all’eccidio di Cefalonia.
La Giornata degli Internati è esplicitamente definita "complementare" rispetto al Giorno della Memoria (27 gennaio) e alla Festa della Liberazione (25 aprile), a conferma che la memoria della Resistenza è unica e indivisibile.
Per attuare questi obiettivi, la legge prevede cerimonie, iniziative e manifestazioni commemorative su tutto il territorio nazionale; il coinvolgimento di pubbliche amministrazioni, istituzioni scolastiche e universitarie; l’incentivazione del conferimento di medaglie d’onore; la deposizione di una corona commemorativa presso l’Altare della Patria a Roma, per sottolineare il carattere nazionale della ricorrenza; il coinvolgimento attivo di associazioni combattentistiche e d’arma.
Padova, Museo Nazionale dell'Internamento

La legge è stata approvata in Parlamento con un pieno consenso trasversale, a testimonianza di una unità nazionale nel riconoscere e valorizzare questa memoria.

Un confronto tra le due leggi
Entrambe le leggi condividono l’obiettivo di trasmettere la memoria dei tragici eventi del Novecento alle nuove generazioni. Tuttavia, si differenziano per ambito specifico, data di commemorazione e finalità: il Giorno della Memoria guarda all’insieme delle vittime e delle responsabilità del nazifascismo in Europa mentre la Giornata degli Internati Militari Italiani riconosce in modo specifico il sacrificio di migliaia di soldati italiani che, con il loro “no” non armato, pagarono con la prigionia, la sofferenza o la vita il rifiuto di aderire al nazifascismo. Una forma di resistenza civile e morale ancora troppo poco conosciuta e riconosciuta.

Ci occuperemo ancora della Legge 6 del 13 gennaio 2025, presentandone l'iter parlamentare e analizzandone gli articoli.
Due leggi, due date, due memorie che si intrecciano e diventano occasioni per riflettere.

Le foto di Auschwitz-Birkenau sono di Beatrice Colotto, che ringraziamo per la preziosa collaborazione. 

                                                                                                                        G.V.