15 luglio 2025

UN PITTORE IN PUNTA DI PIEDI

Giovanni Giuseppe Grasso nasce a Valva il 23 ottobre 1908, in via Sant'Antonio.
Il padre Giacinto a questa data risulta "possidente" (negli atti precedenti era muratore), la madre Maria Grazia Spiotta donna di casa.
Testimoni dell'atto di nascita sono Antonio Freda, proprietario, e Amedeo Caprio, calzolaio.
Ci siamo già occupati del periodo della guerra, quando Giovannino è stato nel Genio Ferrovieri.
Ora ci occupiamo della sua produzione artistica, di pittore e scultore.
Anni Cinquanta, sagrato della Chiesa Madre
Giovanni Grasso è in compagnia di Giuseppe Caprio
fonte: Gozlinus

L'arcana magia delle cose lontane
Nel 1975 (21-30 dicembre) la Galleria Carducci di Pescara ospita una sua mostra.
Questa è la bella presentazione firmata da Franca Foselli Breda.

Un naïf pittore e scultore:
GIOVANNI GRASSO 
Giovanni Grasso vive a Valva (Salerno), un paese medioevale, abbarbicato alle rocce, dimenticato.
Nel suo studio silenzioso, accogliente, fantasia e ricordi gli sono compagni.
Pittore schivo, che opera in punta di piedi, in un'epoca in cui l’arte è così soffocata dalle teorie, ci fa scoprire un mondo di fiaba e di magia.
I colori violenti, rubati alla sua terra e alla sua gente arguta e rude, consapevole di vivere per vivere l’essenziale, sono un atto d’amore, la fonte prima della sua ispirazione.
Le nature dei suoi quadri sono ricche, travolgenti, ma tutto, nonostante tutto, è profondamente naïf.
Vissuto per lungo tempo in Venezuela, dove lo ha spinto la sua natura di artista-esploratore, nelle foreste sulle rive dell’Orinoco, «il grande fiume» dei popoli indios, Giovanni Grasso ha appreso l’arte della scultura lignea, ingenua ed essenziale.
Egli ci presenta, in questa personale, tele pervase da una «istintività» che lo accosta ai grandi «semplici», e, in omaggio a popoli che ha conosciuto o che sogna di conoscere, idoli di una eleganza stupenda, che portano impressa l’arcana magia delle cose lontane, proibite.

Di questo testo mi colpisce innanzitutto il titolo.
Naïf è usato come se fosse un sostantivo; pittore e scultore vengono dopo, utilizzati come aggettivi. Per l'autrice, dunque, Giovanni Grasso non dipinge in stile naïf ma è egli stesso naïf, dunque incarna in sé quello che il termine evoca, a partire da uno sguardo puro sul mondo, infantile. Questo sguardo, tipico di un'arte istintiva, si contrappone al mondo accademico, all'arte come teoria: Grasso cerca una sua purezza espressiva.
Significativo il riferimento a Valva: il paesino "medievale, abbarbicato alle rocce, dimenticato" è visto come un luogo interiore, un'arca della semplicità dalla quale Giovanni Grasso trae ispirazione. La gente di Valva, "arguta e rude" - per usare le parole dell'autrice- rappresenta un mondo essenziale, con una sua sapienza che non viene dai libri ma è un tesoro tramandato con la memoria, il lavoro manuale, l'esperienza. 
Ecco che Giovanni Grasso sembra esprimere sulla tela e nel legno questo modo istintivo di aderire alla vita, di comprenderla, di farci i conti.
Un'altra mostra si è tenuta a Valva nel 1983 (23-30 ottobre), nel prefabbricato del Municipio.
Il blog Gozlinus l'ha ricordata nel seguente post:

Piccola galleria
Riteniamo utile soffermarsi su alcune sue opere, come se fossero  finestre aperte sul suo mondo interiore. In questa breve galleria visiva si possono riconoscere alcuni tratti distintivi della sua arte: l’uso di colori intensi, la vitalità delle scene, il richiamo alle origini contadine e la suggestione di mondi lontani. 
Analizzare queste opere consente di avvicinarsi non solo all’artista, ma anche alla sua concezione dell’arte come forma di testimonianza viva, radicata nella vita e nel sentimento.
Ecco un esempio di colori violenti come "atto d'amore" verso la natura: un'esplosione di vita in un "mondo di fiaba e magia".

Pavone su un ramo; fonte: Gozlinus
Valvese è sicuramente il personaggio qui ritratto:

Ritratto di Vito Feniello, Guardia Civica; 
collezione custodita presso il Municipio di Valva
Questa potrebbe essere Piazza della Rimembranza a Valva prima del terremoto del 1980:
Fine anni Ottanta, poco prima della morte di Giovannino Grasso.
Muore un merlo a cui una famiglia è molto affezionata. L'anziano pittore lo trasforma in un quadro che possa in qualche modo mantenerlo presente.

Collezione privata
Nella collezione custodita presso il Municipio di Valva troviamo alcune statuette in legno, ispirate all'arte precolombiana.
In questa statuetta, Grasso sembra cercare l'anima e il simbolo più della forma naturalistica.
In quest'altra invece sembra puntare più sul racconto: si nota una maggiore attenzione alla figura umana e alle sue emozioni; sembra che l'opera vada alla ricerca dell'umano.
Grasso dimostra interesse per le figure dal significato rituale, spirituale; le sue statuette trasmettono un'impressione di mistero. "Idoli di una eleganza stupenda, che portano impressa l'arcana magia delle cose lontane, proibite", per riprendere le parole della presentazione di Foselli Breda.

In un prossimo post continueremo a esplorare la produzione di Giovanni Grasso, soffermandoci su altre opere. Parleremo della mostra recentemente dedicata all’artista nell’ambito della Biennale arte Valva (BaV), promossa dalla Pro Loco  "d'Ayala Valva" su un’idea di Giancarlo Feniello: un’iniziativa che ha rinnovato l’attenzione verso una figura ancora viva nella memoria della comunità.

🙏Grazie
Ad Anna Lisa Del Monte per la gentile collaborazione 
Al Comune di Valva per aver consentito di fotografare le opere della collezione

Fonti
Il testo della presentazione della mostra di Giovanni Grasso a Pescara è tratto dal seguente post di Gozlinus:

13 luglio 2025

GIUSEPPE, UN RAGAZZO DEL '99 CADUTO SUL PIAVE

Sacrario di Fagarè della Battaglia, provincia di Treviso.
Luglio.
Sono venuto qui alla ricerca della sepoltura di tre miei concittadini,  ma nemmeno nel grande registro cartaceo trovo i loro nomi. Ho sempre la speranza che in un registro di carta ci sia una nota, magari scritta a matita, o un foglio ingiallito e piegato male con un elenco aggiuntivo che risolva un mistero.
Nessuna sorpresa, ma non mi arrendo: riproverò in un altro sacrario.

Ho però trovato la sepoltura di un soldato di Castelnuovo di Conza: Giuseppe Annicchiarico.
Era un ragazzo del '99, caduto sul Piave nel giugno 1918, quando ancora non aveva compiuto diciannove anni.
Basta questo pensiero a dare senso ai miei tentativi, un po' disorganizzati, di individuare le sepolture dei soldati del mio paese.

Un soldato tipo
Se dovessi scrivere un racconto o realizzare un corto su un soldato italiano della Grande Guerra, al protagonista darei tre caratteristiche: un nome molto diffuso, ad esempio Giuseppe; lo immaginerei della classe '99, uno dei ragazzi che vanno al fronte quando ormai la guerra è nella fase decisiva; lo immaginerei contadino del Sud che muore sul Piave, mandato a combattere una guerra lontana dalla sua terra perché -come è scritto sul Sacrario di Fagarè- così volle la Patria, amor che vince ogni altro amore. Lo immaginerei caduto sul Piave, perché è questo il fiume per eccellenza del martirio della gioventù italiana.
Dunque, la storia di Giuseppe ne racchiude tante altre simili: ognuna di queste merita di essere ricostruita, raccontata, trasmessa.
La storia di Giuseppe
Non ho molti mezzi per raccontare quella di Giuseppe, ma ci provo.
Giuseppe nasce a Castelnuovo in via Fontana il 23 luglio 1899, figlio di Michelangelo fu Giuseppe e fu Margherita Del Vecchio, contadino di 34 anni, e di Assunta Mariantonia De Rogatis (ma nell'atto di matrimonio risulta De Rogato). 

I suoi genitori si sono sposati nel 1890. Dal registro dei matrimoni ricaviamo alcune informazioni anagrafiche: i genitori di Michelangelo, Giuseppe e Margherita Del Vecchio, risultano già deceduti; i genitori di Assunta sono Domenico (deceduto) e Filomena Giuliano. 
Nel 1894 nasce Giuseppe,  morto a soli tre mesi; nel 1895 nasce la sorella  Amalia. 
Giuseppe partecipa alla Grande Guerra inquadrato nel 244° Reggimento Fanteria 'Cosenza', unità impegnata sul fronte del Piave, dove combatte nella decisiva "Battaglia del Solstizio", quando il reggimento merita la Medaglia d'Argento al Valor Militare.
Il 16 giugno 1918, mentre austriaci e italiani combattono lungo le teste di ponte aperte sul Montello, il Reggimento Fanteria Cosenza viene probabilmente impiegato nelle azioni di contenimento e contrattacco che costringeranno il nemico alla ritirata. 
E' questo il giorno in cui Giuseppe cade in battaglia. 
Dal registro che consulto, risulta che la sua prima sepoltura è stata il cimitero La Fossa, tomba 295.

Quest'anno Castelnuovo di Conza celebra i cento anni del suo monumento ai caduti e dunque rivolgo un pensiero ai suoi giovani morti in guerra, alcuni dei quali così vicini ai miei compaesani nella sepoltura lungo la linea del Piave come lo furono in vita, contadini, pastori o artigiani dalle parti del Sele.

La foto storica del monumento di Castelnuovo di Conza è tratta dalla pagina Facebook dell'ex sindaco Francesco De Geronimo, recentemente scomparso. Questo post è dedicato alla sua memoria.

Approfondimento
Al monumento di Castelnuovo di Conza abbiamo dedicato il seguente post:

Al Sacrario di Fagarè della Battaglia stiamo dedicando una serie di post; ecco il primo:

G.V.

12 luglio 2025

DOVE IL PIAVE COMANDÒ

Sono al sacrario di Fagarè della Battaglia con un proposito non molto razionale: trovare la sepoltura di due -forse anche tre- miei concittadini caduti lungo la linea del Piave, tra il novembre 1917 ("Prima battaglia del Piave") e i mesi di giugno-luglio 1918 ("Battaglia del Solstizio").

Le possibilità di successo sono scarse, perché da tempo associazioni e appassionati hanno individuato, tra i caduti sepolti qui, alcuni soldati il cui luogo preciso di sepoltura era fino ad allora sconosciuto, aggiornando così l'Albo d'Oro con nuove informazioni: se accanto al nome dei miei concittadini non compare questo sacrario, ne deduco che non riposano qui.
Però sono qui perché sentivo di dover esserci.

Mi accoglie con gentilezza il custode, un militare che mi confessa di essere contento di parlare con i visitatori, visto che non sempre vengono.
Il Sacrario è in stile neoclassico, in marmo bianco; ha nove navate.
Nei due vestiboli sono presenti delle lapidi con alcuni celebri bollettini di guerra del Comando Supremo: quelli delle due battaglie del Piave, il Proclama della vittoria.
Mi colpiscono due grafici delle battaglie del Piave. Belli, chiari; sembrano pagine illustrate di un manuale di storia, diventate pietra:


Al centro del porticato c’è una cappella decorata, con un mosaico intitolato L’Apoteosi: un fante morente avvolto nella bandiera italiana, sostenuto da Cristo. Un'immagine che sottolinea il valore del sacrificio dei soldati, interpretato come una sorta di martirio per la patria. 
E' l'idea del soldato come alter Christus. Lo storico Sergio Luzzatto, in un bellissimo saggio dedicato a Padre Pio, sottolinea come nella cultura religiosa e ideologica del dopoguerra i militari fossero rappresentati come figure redentrici: uomini caduti per la patria che rievocavano l'immagine del Cristo sofferente per l'umanità.

Sui lati della facciata sono scolpiti quattro bassorilievi in marmo opera dello scultore Marcello Mascherini, provenienti da un precedente monumento, che illustrano tappe significative della partecipazione italiana alla guerra.

L'entrata dell'Italia in guerra, 24 maggio 1915
fonte: Catalogo generale dei Beni Culturali

Di qui non si passa, 15 giugno 1918
fonte: Catalogo generale dei Beni Culturali

La barbarie nemica sul suolo della Patria, 24 ottobre 1917
fonte: Catalogo generale dei Beni Culturali

Trionfo delle armi italiane, 4 novembre 1918
Fonte: Catalogo generale dei Beni Culturali
All'esterno, lungo le siepi di cinta del sacrario, in teche di vetro sono conservati frammenti originali di muro che recano due frasi passate alla storia, scritte durante la Battaglia del Solstizio (dal 15 al 24 giugno 1918).
Le frasi sono anche riportate sulle pareti esterne laterali del sacrario.
Questa è una delle più iconiche, attribuita a Ignazio Pisciotta, bersagliere impiegato nel servizio propaganda:


A lui viene attribuita anche quest'altra frase, resa celebre da un discorso di Mussolini del 1928 (la commemorazione del maresciallo Diaz) e incisa poi su alcune monete:


Ecco le altre due iscrizioni sulle pareti laterali:


Mi viene in mente il verso immortale di Orazio 

Dulce et decorum est pro patria mori 

che il poeta inglese Owen, soldato della Grande Guerra, definirà The old Lie, "la vecchia menzogna".
Il discorso sarebbe lungo, in effetti; basta però questa contrapposizione per far emergere tutto il contrasto tra la retorica del sacrificio e l'esperienza concreta della guerra.
Il decorum antico indica ciò che è appropriato e onorevole, il valore civico di morire per la patria "come si conviene" a un buon cittadino romano; non mi sorprende che in una di queste iscrizioni sia diventato "uomo onorato", mentre mi colpisce l'aggettivo "divino", che mi sembra tipico della costruzione della memoria dei caduti; il soldato che muore non solo  compie un atto onorevole ma entra in una dimensione sacra: è la "religione della Patria".
Questo sacrario è stato infatti inaugurato nel 1935, durante il fascismo, dopo oltre quindici anni di lenta e dolorosa elaborazione del lutto nazionale. In quegli anni, la memoria del sacrificio dei soldati divenne uno strumento potente di coesione e propaganda, capace di tenere insieme dolore, orgoglio, fede e ideologia. Anche questo luogo mi pare ne sia testimonianza evidente.

In questo processo collettivo di elaborazione del lutto e costruzione di una memoria nazionale, fondamentale è il ruolo simbolico che assume il Piave.

Qui è stato scelto uno dei versi più celebri della Leggenda del Piave, per farne l'iscrizione principale del sacrario.
A ben vedere, però, da queste parti il Piave non si limitò a sussurrare; sempre citando la celebre canzone:
"No" disse il Piave, "No" dissero i fanti
mai più il nemico faccia un passo avanti
E si vide il Piave rigonfiar le sponde
E come i fanti combattevan le onde
Rosso del sangue del nemico altero
Il Piave comandò: "Indietro va', straniero".
Questa sponda del grande fiume ha visto la riscossa italiana dopo Caporetto e la vittoria decisiva del giugno 1918.
È anche un sacrario alla rinascita, dunque, questo luogo che ha elaborato il lutto nelle forme che la mentalità del tempo suggeriva e lo ha trasformato in memoria collettiva, dove il Piave guidò la riscossa.


Sugli argomenti affrontati si vedano anche i seguenti post:

Le foto delle quali non è indicata la fonte sono dell'autore. E si vede.

Fagarè della Battaglia, 1 -continua-

G.V.






04 luglio 2025

BREVE COME UN GIORNO DI NOVEMBRE

Maria Concetta.
Questo è il nome che la bambina porta scritto su un cartello legato al petto.
Chi l’ha lasciata alla ruota di Valva ha aggiunto un particolare: “Battezzata a 10 novembre andante mese ed anno”.
E’ il 13 novembre 1847; “la pia ricevitrice di questa ruota Geronima Libero” presenta al sindaco Giovanni Marcello “una bambina, avvolta in pochi cenci, che è stata esposta a questa suddetta ruota in questa scorsa notte a circa le ore quattro, la quale dimostra di essere venuta alla luce pochi dì innanzi”.
Il sindaco impone alla bambina il cognome Pinto (ma il testo non è chiarissimo), la iscrive nel “registro di atti diversi” (e non nel registro delle nascite), “per dare esecuzione alla legge”; poi la invia al parroco per farla battezzare, “dubitando della veracità del biglietto che portava”.
Sembra l’inizio di una bella storia: una trovatella che diventa adulta e magari va in America dove fa fortuna e diventa mamma e nonna di una bella famiglia.
Invece, nel registro di atti diversi del 1847 alla pagina successiva troviamo la triste fine di questa storia.
Il 18 novembre Felice Vacca (che era il becchino comunale, anche se in questo atto risulta semplicemente “bracciale”) e Francesco Feniello dichiarano che “a circa le ore dieci di questa scorsa notte” è morta la “projetta” Maria Concetta Pinto, “esposta a questa ruota nella notte antecedente al dì 13 novembre”.
Forse dovremmo ricercare queste storie raccontate nei registri di atti diversi: come anomalie nella quotidianità dell’Ottocento, in cui il padre -o in alcuni casi la levatrice- andava in comune e mostrava il neonato -a quanto riportano i registri- al sindaco, che lo vedeva e ne registrava la nascita alla presenza di due testimoni. Il ritrovamento -e in alcuni casi la morte- di un trovatello -o un “projetto”, con la grafia del tempo- era un evento per il quale era previsto un registro particolare.
A questi "gelsomini notturni" il nostro blog cercherà di dedicare un lavoro che aiuti a conoscerne le vicende.

G.V.

01 luglio 2025

NASCE IL SITO "la ràdica"

“...non me ne potevo andare, perché lontano da questa terra sarei stata come gli alberi che tagliano a Natale, quei poveri pini senza radici che durano un po' di tempo e poi muoiono.” [Isabel Allende, La casa degli spiriti] 

Come ci ricorda Isabel Allende, senza radici si rischia di seccare. E' con questo spirito che abbiamo creato la ràdica: per restare legati alla terra e alla memoria.

Nel nostro percorso di crescita, abbiamo pensato che un sito potesse favorire la promozione dei contenuti del blog la ràdica.

Il sito è una sorta di vetrina che mette in evidenza i principali contenuti principali del blog, suddivisi per categorie. 

In questo modo i nostri lettori potranno conoscere meglio le varie iniziative delle ràdica e, magari, ritrovare post meno recenti, che verranno rilanciati per garantirne una maggiore visibilità.

In occasione della nascita del nostro sito, abbiamo anche adottato un logo che, almeno per ora, possa rappresentare la natura del nostro lavoro:

Immagine creata da Google Gemini

Per accedere al sito, basta cliccare qui:

👉https://sites.google.com/view/laradica/home-page

Il sito è ovviamente visualizzabile anche da smartphone e tablet, ma probabilmente si apprezza meglio da computer, dove i contenuti sono disposti in modo più chiaro e completo.

Ogni radice racconta una storia. Il sito è il nostro modo per intrecciarle e condividerle. Vi aspettiamo.

G.V.


25 giugno 2025

LA GUERRA DI GIOVANNINO, DECORATORE

Ho sentito dire che portava la barba per riconoscenza, da quando in una situazione di pericolo venne scambiato per un frate. 
Non è semplice ricostruire l'episodio né è possibile farlo con il suo foglio matricolare, ma non importa. Ci sono aneddoti che circondano le persone di mistero e una barba che sembrava venire dall'Ottocento era come un sigillo antico che custodiva vicende e memorie, rendendole inaccessibili.

Quando fa la visita militare, Giovanni Grasso -noto in paese come Giovannino- risulta "decoratore".

Un decoratore lavorava in contesti molto diversi tra loro: abbelliva edifici religiosi, si occupava della decorazione di saloni, camere e facciate di palazzi privati o della scenografia di teatri e caffè. Nei cantieri collaborava con muratori e falegnami. Decorava pareti con pannelli o cornici intagliate, applicando pitture ornamentali o durature, soprattutto se aveva competenze nell'intaglio e nella lavorazione del legno.

Proviamo a immaginare qualche decorazione da lui realizzata, magari all'interno del palazzo di una famiglia benestante di Valva o della zona. Ci aiutiamo con l'intelligenza artificiale, alla quale abbiamo fatto analizzare alcuni dipinti di Giovanni Grasso per ispirarsi al suo stile naïf, con colori vivaci e un'aria fiabesca.



La carriera militare
Poi arriva la guerra e interrompe l'atmosfera sognante delle decorazioni di Giovannino.
Le notizie che ricaviamo sulla sua carriera militare non sono molte, anche se alcuni elementi sembrano di un certo interesse.
Ad esempio, leggiamo che nel 1928 viene chiamato alle armi nel Reggimento Genio Ferroviere a Treviso e viene congedato l'anno successivo, con dichiarazione di buona condotta.
il 18 giugno 1940, pochi giorni dopo l'entrata in guerra dell'Italia, Giovannino è richiamato alle armi per mobilitazione e giunge al Deposito succursale Reggimento ferrovieri in Castel Maggiore (Bologna).
Dieci giorni dopo lo troviamo nella 6 Compagnia Ferrovieri mobilitata, giunto in territorio dichiarato in stato di guerra, dove resta poco perché già  il 18 luglio risulta "partito dal territorio dichiarato in istato di guerra". Il 19 ottobre 1940 c'è la smobilitazione e Giovannino viene ricollocato in congedo illimitato. Il 3 aprile 1941 però viene richiamato alle armi "per esigenze (di) carattere eccezionale" e torna a Castel Maggiore, da dove in seguito viene trasferito alla 18 Compagnia Genio Ferrovieri in Firenze.
La notizia successiva che troviamo annotata nel suo foglio matricolare riguarda l'8 settembre 1943: anche Giovannino risulta "sbandato" e successivamente "da considerarsi in licenza straordinaria". Il 2 aprile 1944 sarà collocato in congedo.

Dalle fonti che abbiamo consultato, non emerge con chiarezza dove fosse esattamente mobilitata la  6ª Compagnia Genio Ferrovieri nel giugno 1940. Sappiamo che il Reggimento Genio Ferrovieri mobilitò 13 battaglioni di lavoro e 3 gruppi "esercizi linee". Spesso le compagnie del Genio Ferrovieri venivano riorganizzate e spostare rapidamente, soprattutto all'inizio della guerra. Sappiamo però con certezza che la 6ª Compagnia era attiva nei teatri di guerra dal 1941 in poi, soprattutto in Nord Africa (1941-42) e successivamente in altri fronti (come quello greco-albanese). Sappiamo inoltre che dal 1943 l'Italia settentrionale e centrale fu affidata al  3° Raggruppamento Genio Ferrovieri, con sede a Castel Maggiore. Questa struttura coordinò sette battaglioni di lavoro, un battaglione ponti metallici smontabili, e diverse sezioni di esercizio. Queste unità furono impegnate per preservare la rete ferroviaria e assicurare la necessaria manutenzione, ripristinare linee e ponti danneggiati dai bombardamenti. 

Giovanni Grasso è accanto a suo nipote,
anch'egli artista, Antonio Freda.
Foto Falco, fonte: Gozlinus

Musa valvese, capitolo 5
G.V.



  

24 giugno 2025

GLI OCCHI DI RODOLFO

Celeste Cozza è una contadina che vive in via San Biagio.
La notte del 17 marzo 1869, verso le tre, viene svegliata dai vagiti di un neonato. 
Si alza, apre la porta e trova "sulla nuda terra" un bambino avvolto in un grembiule di lana nera e una fascia.
Il giorno dopo va al municipio, presenta il bambino al sindaco -il cavaliere Antonio D'Urso- e gli racconta l'accaduto, mentre il sindaco verbalizza sul registro dei nati dell'anno.
Il sindaco scrive che il bambino è di sesso maschile, "dall'età apparente di due giorni, siccome mi ha anche assicurato la levatrice Maria Fratangelo".
Il bambino non ha su di sé segni o scritti che possano farlo riconoscere. 

Spesso -non sempre- i trovatelli hanno un foglietto con il nome; a volte hanno scritto anche "battezzato".
Il sindaco affida il bambino alla balia, Maria Francesca Megaro di Pasquale, moglie di Angelo Strollo: la famiglia risiede in via Pistelle.
Infine, applicando l'articolo 34 del Codice Civile del Regno d'Italia, il sindaco dà al bambino un nome: Rodolfo Cilestrino. 
Come mai questa scelta?
In genere ai "projetti" si dà un nome simbolico, benaugurante; il cognome può far riferimento alla loro condizione o anche a qualche elemento fisico. 
E' improbabile che un bambino di due giorni abbia già gli occhi celeste chiaro, come il cognome Cilestrino potrebbe far pensare.
Non escludo, per la verità, un indiretto omaggio alla donna che ha trovato il bambino: Celeste.
Quella di Rodolfo sembra una vicenda a lieto fine, ma non lo è.
Lo stesso sindaco D'Urso annoterà sul registro dei morti dell'anno 1875, alla data del 24 maggio, la morte del piccolo "Cilestrino Rodolfo trovatello".
Mi colpisce il termine che sul registro si accompagna al nome e al cognome del bambino: è come se fosse un secondo cognome, un soprannome o un titolo.
A quella data, probabilmente Rodolfo si trova ancora presso la famiglia di Maria Francesca e Angelo, perché nel registro risulta che è morto in via Prima Pistelli. Angelo Strollo, di anni trentotto, è presenta all'atto in qualità di testimone.
Mi colpisce anche un altro particolare: il sindaco è molto preciso -non lo è per gli altri defunti nelle pagine del registro di quell'anno- nell'indicare l'età del bambino: anni sei, mesi due, giorni dieci.
In questo elemento che potrebbe apparire un vezzo burocratico vedo un piccolo gesto di attenzione, forse un omaggio nei confronti di una piccola esistenza, di un bambino che è entrato nella storia di Valva in una notte di marzo e se n'è andato poco prima dell'estate, pochi anni dopo. 
Forse in quel momento gli occhi di Rodolfo sono davvero di colore celeste chiaro.
G.V.

23 giugno 2025

SAN GIOVANNI, IL DESTINO SUL DAVANZALE

Indagare i segni del vero in una notte magica
Anche se i bambini di oggi, non per colpa loro, pensano sia quella di Halloween, la notte dell'anno più ricca di significato culturale e antropologico, almeno alle nostre latitudini, è molto probabil-mente quella di San Giovanni.
Le ragazze in cerca di marito cercavano il responso sul loro futuro con un rito che la memoria popolare ha custodito: lasciavano l’albume di un uovo in un bicchiere d’acqua o più verosimilmente in un bacile, lasciato sul davanzale durante la notte di San Giovanni.
A contatto con l’acqua, l’albume disegnava delle forme che al mattino venivano interpretate dalla fantasia popolare come vaticini per il futuro.
Tra i segni di buon auspicio c’erano forme simili a vele o a chiese: annunciavano fortuna, viaggi, matrimoni. In particolare, una barca con le vele gonfie era considerata il presagio di un viaggio in America.
Altre forme, invece, venivano interpretate come segni di disgrazie o di malattie in arrivo.
Questo rito, di chiara origine precristiana, è collocato in una data di passaggio tra stagioni e cicli agricoli, in coincidenza con una delle feste più importanti del calendario cristiano.
La festa di San Giovanni, così vicina al solstizio d'estate, si trova in una posizione speculare rispetto al Natale, che coincide con il solstizio d'inverno.
Mia nonna mi parlava anche del cardo, ma i miei ricordi non sono precisi.
Leggo che questa pianta è presente nei riti di San Giovanni in varie regioni italiane, sempre in riferimento all’amore.
Ad esempio, si chiedeva al cardo se un amore fosse corrisposto: si prendeva un cardo in fiore, si bruciacchiava la testa del fiore e si immergeva il gambo in acqua durante la notte; se al mattino il cardo era ancora vivo, significava che l’amore era ricambiato.
In altre varianti, dalla posizione assunta dal cardo le ragazze capivano se si sarebbero sposate entro l’anno.
Immagine creata con l'intelligenza artificiale

In una delle canzone del suo album "Canzoni della Cupa", dal titolo "La notte di San Giovanni", Vinicio Capossela rievoca i riti popolari di questa notte magica e propiziatoria:

Ora le ragazze pure di cuore
Ancora sentono le parole
Delle ombre nel vacile
Dentro l'acqua continuare a dire 
[…] 
Ora le ragazze per San Giovanni
Chiedono al fuoco di svelare gli inganni
Chiedono al cardo chiedono al piombo
Chi avranno un giorno per compagno intorno
E anche le crude Masciare
Questa notte vogliono volare
E ognuno indaga nel cielo
Qualche segno dal mondo del vero

Nel testo mi colpisce il riferimento alle "masciare", le nostre "janare": in questa notte speciale, anche loro vogliono volare. Sono definite “crude”, per la loro natura selvaggia, non addomesticata né addomesticabile.
Capossela cita il cardo e il piombo fuso; quest’ultimo veniva utilizzato in alcune regioni come strumento per predire il futuro, attraverso l’interpretazione delle forme create dalla solidificazione del metallo, che veniva fuso su una fiamma e poi versato nell’acqua.
La notte di San Giovanni è una testimonianza del legame tra l'uomo e i cicli della natura e del folclore che ha plasmato l'immaginario collettivo per secoli.
Forse prima di importare artificialmente e acriticamente le tradizioni di altre culture, avremmo potuto tentare almeno di conoscere le nostre.
G.V.

20 giugno 2025

IL PUDORE ROMANTICO DI ARCADIO: TRA CANZONE E PREGHIERA

Tornato dalla Grande Guerra, Arcadio Grasso lotta contro le conseguenze del terribile gas che ha respirato in battaglia. Rimane però attaccato alla vita, come il fante Ungaretti durante la sua Veglia accanto a un compagno massacrato.

nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d'amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

Arcadio vive la sua attesa della morte -che lo raggiungerà a soli trentuno anni- dipingendo e scrivendo canzoni d’amore.

Il blog Gozlinus ha pubblicato il testo di una canzone d’amore di Arcadio Grasso.

Proponiamo un’analisi del testo. 

Tre strofe di otto versi ciascuna; l’ultimo verso è sempre tronco; si alternano senari.

Sei bella nel tempio
di bruno vestita.
Coperta hai la fronte
da un pudico velo.
Dei dolci peccati
sei forse pentita,
mi sembri una santa
discesa dal ciel.

Il nipote Antonio Freda ricordava una versione leggermente diversa di questa strofa:

Sei bella, sei splendida/ di bianco vestita,/coperta la fronte/da un candido velo…/dei dolci peccati/sei forse pentita,/mi sembri una santa/ discesa dal ciel…

Nelle due versioni che ci sono pervenute, cambia il colore del vestito della giovane donna: il bianco fa subito pensare a una sposa, mentre il nero potrebbe farci pensare a una suora (ipotesi rafforzata dalla presenza di un “pudico velo”).

Il riferimento ai “dolci peccati” e soprattutto quel “forse” che rende il pentimento non certo fanno pensare a un giovanile errore, come direbbe Petrarca, a una precedente fase della vita della donna. 

Ha amato un uomo e poi si è sposata o ha preso i voti?

Io pure ti vidi
ancora più bella
laggiù sulla rena
ai rialzi del mare.
Sul timido piede
ancora più bella,
che tutto il mio cuore
tremava d’amor.

Anche della seconda strofa il nipote Antonio ricordava un’altra versione:

Io pure ti vidi/ancora più bella/laggiù nella rena/ai riflessi del mare,/sul timido piede/sì plastica e snella,/che tutto il mio core s’infiamma d’amor…”

C’è stato un momento in cui la donna è stata ancora più bella: non l’amore santificato dal sacramento (nel “tempio”), ma l’amor profano, con l’io lirico che ricorda le proprie emozioni (“tutto il mio cuore/ tremava d’amor”) alla visione del corpo della donna; una pudica sineddoche suggerisce di citare solo “il timido piede” ma fa immaginare il resto di un corpo giovanile; da segnalare, comunque, che nella versione tramandata da Antonio Freda i riferimenti alla fisicità sono più espliciti: “sì plastica e snella”.

O soave fanciulla,
bell’angel di Dio,
riposa tranquilla
nei sogni d’amore
e, se sarà scritto
nel mio destino,
un giorno mia sposa
sarai dal ciel.

Dopo l’evasione sensuale, è il momento del ritorno all’ordine morale.

La donna è chiamata “fanciulla”, un termine che sembra privarla di ogni riferimento sensuale; per rafforzare il concetto, la donna è definita “bell’angel di Dio”, un’immagine che rafforza e supera i versi che concludevano la prima strofa: mi sembri una santa /discesa dal ciel. Non c’è più “mi sembri”, che conferiva alla sensazione una dimensione soggettiva e non certa; non più santa ma angelo: quel “santa” era ancora pericolosamente vicino alla memoria dei “dolci peccati”, qui il distacco è compiuto, l’anima è salva,  e la donna è invita a riposare “nei sogni d’amore”.

Cosa significa, di preciso?  Riposare nei sogni nel senso che questi devono riposare e la donna non deve più pensare all’amore del passato?

E’ forse morta? In questo caso, il colore nero della prima strofa assumerebbe un significato di crudo realismo.

L’allusione finale, la speranza che la donna sia la sposa dell’io lirico “dal ciel”, può forse far pensare a un ricongiungimento di due amanti in un’altra vita o comunque a una dimensione più puramente spirituale nella quale un amore terremo può trasformarsi.

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Analisi metrica e stilistica

Le rime, le assonanze e le consonanze sono semplici (vestita/ pentita, bella/ bella, mare/ amore, Dio/mio). Le espressioni "santa discesa dal ciel" e "bell'angel di Dio" rafforzano l'idealizzazione. L'aggettivo "timido" riferito al piede è particolarmente evocativo e aggiunge un tocco di delicatezza e pudore.

Anche il lessico è semplice, con parole che afferiscono al campo semantico del sacro ("tempio", "velo", "santa/ discesa dal ciel",  "angel di Dio"), del pudore ("pudico velo", "coperta la fronte"), dell’amore sognato ("soave fanciulla", "sogni d’amore", "mia sposa").

Tra le figure retoriche, si noti la similitudine “mi sembri una santa / discesa dal ciel”. 

Dal punto di visto fonosimbolico, efficace l’allitterazione in “tremava d’amor”, tra l’altro in una strofa ambientata davanti al mare.


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Commento

Con il tono minore di una poesia tardo romantica e forse crepuscolare, forse in questi versi si avverte il dramma del Canzoniere di Petrarca: l’amore come passione che allontana da Dio, la speranza di un superamento post mortem della dimensione materiale di questo sentimento devastante. Nella canzone non si avverte però mai il dramma, ma il sospiro: un atteggiamento crepuscolare, di un sogno nutrito di abbandono.

L’autore non vuole sorprendere con artifici stilistici o con l’erudizione; vuole esprimere con sincerità e profondità un sentimento giovanile, che l’ascoltatore della sua canzone possa sentire vicino. Lo fa con la semplicità e la grazia di un repertorio amatoriale di canzoni d’amore.

Il testo sembra seguire la traccia della poesia lirica amorosa, sia pure a un livello chiaramente amatoriale.

La donna è idealizzata e desiderata a un tempo; al presente della bellezza pudica -nel tempio- si contrappone il passato del ricordo, in una dimensione più terrena anche se pur sempre eterea.

Il desiderio non diventa mai concretezza fisica.

E’ una poesia dei sentimenti discreti e pudichi.

Ricorda l’ultima stagione del Romanticismo italiano, quella patetica e sentimentale dei componimenti d’amore languidi, letti da giovani in lacrime.

Musa valvese, capitolo 4
G.V.