23 luglio 2025

LA MASCHERA ANTIGAS, IL TELEGRAFO: LA GUERRA DI ARCADIO

Nuovo capitolo del nostro "La musa valvese. Il romanzo della famiglia Grasso". In questo episodio ci occupiamo di un soldato, pittore e autore di canzoni d'amore e religiose.
Il 12 febbraio 1898 Giacinto Grasso, quarantaseienne negoziante di Valva, davanti al sindaco Paolo D'Urso dichiara la nascita di un bambino, in via Sant'Antonio, al quale dà il nome di Arcadio Rodolfo Maria.
Testimoni sono due dipendenti comunali: il messo Donato Vacca e la guardia campestre Michele Cuozzo.
Alla visita militare, nel febbraio 1917, Arcadio dichiarerà di essere telegrafista.
Dal suo foglio matricolare apprendiamo che Arcadio è molto alto per l'epoca: 1,75m. Naso aquilino, mento regolare, occhi castani, colorito pallido, dentatura sana.
Viene arruolato come soldato di leva nella prima categoria e, venti giorni dopo, è chiamato alle armi.
È assegnato al deposito del 3° Reggimento Genio Telegrafisti.
E' arruolato come soldato di leva nella prima categoria.
Venti giorni dopo è chiamato alle armi.
Lo troviamo nel deposito del 3°Reggimento Genio Telegrafisti.
All’inizio del conflitto, il Reggimento mobilitò 24 compagnie telegrafisti: alcune assegnate direttamente al Comando Supremo, altre alle Armate e ai Corpi d’Armata, inclusi plotoni dislocati nelle fortezze di frontiera. Erano inoltre presenti sezioni radiotelegrafiste e compagnie di milizia mobile, oltre a una compagnia treno per il supporto logistico.
Durante la guerra, il numero delle compagnie crebbe progressivamente: nel 1916 e 1917 le sezioni telefoniche divisionali divennero vere e proprie compagnie telegrafiste, fino a raggiungere complessivamente 68 compagnie telegrafiste entro la fine del conflitto.
Tra i volontari di rilievo si annovera Guglielmo Marconi, che prestò servizio come ufficiale nel Reggimento, contribuendo all’impiego strategico delle comunicazioni radiotelegrafiche.
Il 23 dicembre 1917 Arcadio è mandato in licenza straordinaria di convalescenza di giorni ottanta. Il motivo non è indicato.
A marzo rientra, ad agosto avrà un'altra licenza di quattro mesi.
Da un prezioso post di Gozlinus, che si fonda su testimonianze raccolte nella famiglia Grasso, sappiamo che Arcadio è rimasto gravemente ferito dall'iprite, conosciuta come "gas mostarda", che provoca gravi ustioni alla pelle e danni all'apparato respiratorio.
Museo, Sacrario di Fagarè della Battaglia

Le armi chimiche nella Grande Guerra 
La Prima guerra mondiale rappresentò il primo grande conflitto in cui le armi chimiche vennero utilizzate in modo sistematico e su vasta scala, trasformando i campi di battaglia in veri e propri laboratori di morte. I gas venefici furono messi a punto da alcuni tra i più autorevoli scienziati dell’epoca, tra cui Fritz Haber, premio Nobel e figura chiave nello sviluppo del gas cloro a fini bellici.
Il 22 aprile 1915, durante la Seconda battaglia di Ypres, l’esercito tedesco impiegò per la prima volta il cloro gassoso, segnando un momento cruciale e inquietante nella storia della guerra moderna. Il gas, entrando in contatto con le mucose respiratorie, provocava gravi difficoltà respiratorie e spesso portava alla morte per edema polmonare.
Successivamente, furono introdotti agenti ancora più pericolosi:
  • Fosgene, un gas quasi inodore e difficile da individuare, che fu responsabile di circa l’85% delle vittime causate da armi chimiche.
  • Iprite, o gas mostarda, utilizzato a partire dal 1917, non provocava una morte immediata ma generava lesioni cutanee, cecità e danni polmonari; inoltre, contaminava l’ambiente circostante, rendendo inaccessibili trincee e materiali.
Nel complesso, le armi chimiche provocarono oltre un milione di intossicazioni e circa 100.000 decessi. Anche l’effetto psicologico fu devastante: molti soldati temevano l’arrivo del gas più dei proiettili, anche perché le maschere antigas spesso non offrivano una protezione efficace, e i sintomi dell’esposizione erano angoscianti.
L’orrore suscitato da questi nuovi strumenti di distruzione portò infine alla reazione della comunità internazionale: nel 1925 fu firmato il Protocollo di Ginevra, che proibiva l’uso delle armi chimiche in guerra, pur non vietandone la produzione o lo stoccaggio.

Il foglio matricolare presenta alcune incongruenze nelle date. 
In linea di massima, comunque, possiamo affermare che l'esperienza militare di Arcadio è stata sicuramente caratterizzata da frequenti licenze dovute a motivi di salute, come dimostra anche l'annotazione finale: riformato l'8 gennaio 1919.

Museo, Sacrario di Fagarè della Battaglia
Questo apparecchio telefonico da campo è esposto nella sala museo all'interno del Sacrario di Fagarè della Battaglia, in provincia di Treviso.
Era utilizzato dai militari per garantire le comunicazioni tra le diverse postazioni sul fronte. Realizzato in legno e dotato di una cornetta collegata tramite cavi, permetteva il collegamento diretto attraverso linee telefoniche cablate. 
Sul pannello frontale sono presenti selettori e comandi per impostare i canali di comunicazione, mentre il tasto telegrafico annesso consentiva l’invio di messaggi in codice Morse. 
Era uno strumento essenziale per il coordinamento tattico durante le operazioni belliche.
Tornato in casa, Arcadio vivrà in precarie condizioni di salute e morirà il 4 aprile 1929, a trentuno anni.
Davanti al cavaliere Antonio Masi si presentano due calzolai: Pietro Nicola Falcone e Michele Falcone; dichiarano che alle sei del mattino è morto Arcadio Grasso, di anni trentuno, possidente.
Arcadio risulta ancora residente in via Sant'Antonio; i genitori sono ancora in vita.
I due testimoni sono Angelantonio Porcelli, muratore,  e Giacomo Feniello, fotografo.
Gozlinus ha pubblicato l'elegante timbro che il fotografo-pittore apponeva sul retro delle sue foto:

fonte: Gozlinus
Concludiamo il racconto della vita di Arcadio Grasso con questo piccolo segno di bellezza, quasi un omaggio a un valvese la cui gioventù è stata portata via dalla guerra ma la cui sofferenza è stata certamente alleviata da uno spirito poetico, che gli suggeriva di scrivere canzoni d'amore, come quella che abbiamo cercato di analizzare nel post 👉 Il pudore romantico di Arcadio: tra canzone e preghiera.
Nel repertorio di Arcadio giunto fino a noi c'è anche un canto sacro, un'Ave Maria. Cercheremo di dedicare un post anche a questo testo.

Musa valvese: il romanzo della famiglia Grasso

Il blog Gozlinus ha dedicato questi interessanti post alla figura di Arcadio Grasso

Approfondimenti storici presenti nel post:
Gli approfondimenti storici contenuti in questo post sono stati elaborati con il supporto di ChatGPT (OpenAI), che ha sintetizzato e rielaborato informazioni tratte da fonti storiche accreditate, tra cui:
Archivio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano
Antonio Sema, La guerra chimica 1915-1918
Sito ufficiale del Sacrario di Fagarè della Battaglia
Dietrich Stoltzenberg, Fritz Haber: Chemist, Nobel Laureate, German, Jew
Protocollo di Ginevra del 1925 (documentazione ONU)
G.V.

20 luglio 2025

I 25 ANNI DELLA LEGGE SUL "GIORNO DELLA MEMORIA": UN CONFRONTO CON LA LEGGE SUGLI IMI

Venticinque anni fa, il 20 luglio 2000, veniva promulgata la Legge n. 211, che istituiva il Giorno della Memoria.
Questa ricorrenza, che si celebra ogni 27 gennaio, è nata con l’obiettivo di ricordare la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico); 

ricordare le leggi razziali e la persecuzione italiana contro i cittadini ebrei

commemorare gli italiani deportati, imprigionati e uccisi nei campi nazisti, inclusi i deportati militari e politici

Padova, Museo Nazionale dell'Internamento
onorare coloro che, anche in contesti e schieramenti diversi, si opposero al progetto di sterminio e, a rischio della propria vita, salvarono perseguitati e innocenti.
Padova, Giardino dei Giusti del Mondo

La legge promuove l’organizzazione di cerimonie, iniziative e momenti di riflessione pubblica, in particolare all’interno delle scuole di ogni ordine e grado.

La legge dedicata agli internati italiani
Il 13 gennaio 2025 è stata promulgata la Legge 6/2025, che istituisce la Giornata degli internati italiani nei campi di concentramento tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, da celebrarsi ogni anno il 20 settembre.
La scelta della data non è casuale: il 20 settembre 1943 Adolf Hitler decise di privare i militari italiani catturati dello status di prigionieri di guerra, classificandoli come Internati Militari Italiani (IMI). Questo significò l’esclusione dalle tutele previste dalle convenzioni internazionali e l’inizio di una prigionia durissima e a volte anche letale.
La legge si propone di conservare e valorizzare la memoria di quanti, dopo l’8 settembre 1943, rifiutarono di collaborare con le forze tedesche e la Repubblica Sociale Italiana, venendo deportati nei campi nazisti. Questo rifiuto collettivo è stato definito un “plebiscito antifascista”, una forma di resistenza non armata. 

Padova, Museo Nazionale dell'Internamento
Altri obiettivi della legge sono quelli di  riconoscere il valore morale e civile della loro scelta e di ricordare anche i militari italiani uccisi per essersi rifiutati di combattere a fianco dei nazisti, con riferimento, tra gli altri, all’eccidio di Cefalonia.
La Giornata degli Internati è esplicitamente definita "complementare" rispetto al Giorno della Memoria (27 gennaio) e alla Festa della Liberazione (25 aprile), a conferma che la memoria della Resistenza è unica e indivisibile.
Per attuare questi obiettivi, la legge prevede cerimonie, iniziative e manifestazioni commemorative su tutto il territorio nazionale; il coinvolgimento di pubbliche amministrazioni, istituzioni scolastiche e universitarie; l’incentivazione del conferimento di medaglie d’onore; la deposizione di una corona commemorativa presso l’Altare della Patria a Roma, per sottolineare il carattere nazionale della ricorrenza; il coinvolgimento attivo di associazioni combattentistiche e d’arma.
Padova, Museo Nazionale dell'Internamento

La legge è stata approvata in Parlamento con un pieno consenso trasversale, a testimonianza di una unità nazionale nel riconoscere e valorizzare questa memoria.

Un confronto tra le due leggi
Entrambe le leggi condividono l’obiettivo di trasmettere la memoria dei tragici eventi del Novecento alle nuove generazioni. Tuttavia, si differenziano per ambito specifico, data di commemorazione e finalità: il Giorno della Memoria guarda all’insieme delle vittime e delle responsabilità del nazifascismo in Europa mentre la Giornata degli Internati Militari Italiani riconosce in modo specifico il sacrificio di migliaia di soldati italiani che, con il loro “no” non armato, pagarono con la prigionia, la sofferenza o la vita il rifiuto di aderire al nazifascismo. Una forma di resistenza civile e morale ancora troppo poco conosciuta e riconosciuta.

Ci occuperemo ancora della Legge 6 del 13 gennaio 2025, presentandone l'iter parlamentare e analizzandone gli articoli.
Due leggi, due date, due memorie che si intrecciano e diventano occasioni per riflettere.

Le foto di Auschwitz-Birkenau sono di Beatrice Colotto, che ringraziamo per la preziosa collaborazione. 

                                                                                                                        G.V.

19 luglio 2025

VINCENZO SPATOLA, IL DESTINO IN UN NOME

Caduto nella Grande Guerra, il suo nome rivive in un nipote scomparso nel terremoto del 1980 e in un altro nato in America.

Vincenzo Spatola nasce a Valva il 31 gennaio 1891, da Michele e Francesca Torsiello.
Ha tre fratelli più grandi: Salvatore (classe 1884), Prospero (classe 1886) e Serafino (classe 1888).
Gli Spatola sono una famiglia di fabbri e maniscalchi; Vincenzo alla visita militare dichiara però di essere sarto.
Una curiosità: dal 1844 al 1913, nei registri delle liste di leva conservati all'Archivio di Stato di Salerno risultano nove soldati con il cognome Spatola nati a Valva; di otto di loro è indicata la professione e ben cinque sono fabbri ferrai o maniscalchi.
Soldato di leva di prima categoria, Vincenzo è lasciato in congedo illimitato nell'aprile 1911. È chiamato alle armi nell'ottobre dello stesso mese, quando è "inviato in congedo provvisorio con l'obbligo di presentarsi alle armi entro un mese dal congedamento del fratello Serafino, richiamato della classe 1888". 

Il tamburino 
Vincenzo arriva quindi alle armi "in seguito al congedamento del fratello", l'8 maggio 1912; il giorno dopo viene assegnato al 22° Reggimento Fanteria.
L'anno seguente lo troviamo tamburino nello stesso reggimento.
Il ruolo del tamburino, solitamente riservato a soldati giovani, consiste nel segnalare ordini con strumenti a percussione (come il tamburo); un compito importante per la comunicazione nei reparti.

La ferita in Libia
Il 4 giugno 1913 Vincenzo è nell'87° Reggimento Fanteria, il 9 giugno parte per la Libia e si imbarca a Napoli.
Rientra in Italia e sbarca a Palermo già il 12 luglio, a causa di una "ferita d'arma da fuoco alla regione sopraclavicolare sinistra con permanenza di proiettile", riportata nel combattimento avvenuto il 1 luglio a Safsaf (nei documenti indicato anche come Saf Saf).
In questo scontro in Cirenaica, il Regio Esercito italiano affronta i guerriglieri senussi (una confraternita islamica organizzata militarmente). Una colonna di italiani cade in un'imboscata e viene accerchiata; Vincenzo è uno dei 105 soldati italiani feriti. Tra morti e dispersi, le perdite italiane sono di circa 100 uomini.
L’episodio si colloca tra le prime sconfitte italiane dopo la guerra italo-turca, all’interno della più ampia Campagna di Libia, segnata dalla resistenza armata delle popolazioni locali contro l’occupazione italiana.
Il contesto storico e militare
La guerra italo-turca (1911–1912) fu un conflitto tra il Regno d’Italia e l’Impero Ottomano, volto alla conquista della Tripolitania e della Cirenaica, allora territori ottomani. Dopo la dichiarazione di guerra, il 29 settembre 1911, l’Italia occupò rapidamente le zone costiere. Il conflitto si concluse con il Trattato di Losanna (18 ottobre 1912), che sancì la cessione formale dei territori all’Italia.
Questa guerra segnò l’inizio della più lunga e complessa Campagna di Libia (1912–1931), nella quale l’Italia cercò di consolidare il proprio dominio, incontrando però una forte resistenza, soprattutto in Cirenaica, da parte dei Senussi. Il conflitto si sviluppò in forme di guerriglia, insurrezioni e repressioni, fino alla conquista definitiva dell’entroterra. La campagna si concluse con l’impiccagione di Omar al-Mukhtar nel 1931, simbolo della resistenza libica.
La Grande Guerra 
Vincenzo giunge nuovamente alle armi in un giorno fortemente significativo per la storia italiana: il 24 maggio 1915
È assegnato al 65° Reggimento Fanteria. Poco più di un anno dopo, nel giugno 1916, risulta inquadrato nel 18° Reggimento Fanteria, parte della Brigata Acqui.
In quei mesi si combatte duramente sul fronte dell'Isonzo: le truppe italiane, dopo la conquista di Gorizia (9 agosto 1916), tentano di sfondare le linee austro-ungariche sulle alture orientali, tra cui la quota 305, nota come posizione di Santa Caterina.
L’11 agosto 1916, mentre infuria la battaglia per quella posizione strategica, Vincenzo risulta disperso. Non è certo che il suo reggimento fosse direttamente coinvolto nell’attacco principale a Santa Caterina, ma è probabile che si trovasse nei pressi, impegnato in manovre di rinforzo, pattugliamento o supporto. 
Nel caos della guerra, molte perdite vengono registrate come "dispersi", senza certezza sulle circostanze.
Colonna di fanteria italiana in marcia
verso il vallone del Carso; fonte
Santa Caterina
Durante la Sesta battaglia dell’Isonzo, l’esercito italiano attacca la collina di Santa Caterina, vicino a Gorizia, fortemente difesa da truppe austro-ungariche. L’offensiva è condotta dalla 45ª Divisione italiana ma, nonostante vari tentativi e un fuoco preparatorio, tutti gli attacchi vengono respinti.
L’operazione fa parte del tentativo italiano di consolidare le posizioni attorno a Gorizia, conquistata pochi giorni prima (9 agosto 1916), puntando a superare le fortificazioni a est, tra cui Santa Caterina e San Gabriele. La battaglia evidenzia le grandi difficoltà nel superare difese ben organizzate, anche dopo un avanzamento.
È leggendaria, anche se poco verificabile, la testimonianza di mitraglieri austro-ungarici “incatenati” alle loro armi, riportata nei resoconti della Brigata Benevento.

L'Isonzo con sullo sfondo Gorizia; fonte
Il cammino di un nome 
Il nome del soldato caduto rivivrà in uno dei figli di suo fratello Serafino: nato nel 1923, Vincenzo Spatola sposerà la cugina del soldato americano Henry Porcelli (alla storia del quale abbiamo dedicato diversi post). 
In questa foto, verosimilmente scattata proprio da Henry, vediamo al centro Vincenzo e sua moglie Maria D'Amato. Siamo a Valva, in zona San Vito, dopo lo sbarco alleato a Salerno (dunque nell'autunno del 1943):
Vincenzo e Maria si sono sposati nel luglio 1942. 
Troveranno la morte insieme al padre di lui, Serafino, a Castelnuovo di Conza la sera del terremoto del 23 novembre 1980.
Anche Prospero Spatola, emigrato negli USA nel 1906, darà a uno dei figli il nome di Vincenzo. 

Dal prezioso archivio di Gozlinus, due foto della famiglia Spatola:
Adriano, Michele e Vicenzo Spatola; fonte
Michele Spaola e suo figlio Serafino; fonte

Dalla polvere del deserto libico, al fango delle trincee, poi alla polvere delle strade americane attraversate a gran velocità dal progresso,  fino a quella delle macerie di una domenica sera di novembre: il nome Vincenzo Spatola sembra segnare le tappe di un destino che si ripete. 
Due  tragedie -la guerra e il terremoto- e l'epopea, a tratti eroica e a tratti drammatica dell'emigrazione: momenti che nel Novecento hanno profondamente segnato la comunità di Valva.

Approfondimenti

Abbiamo già parlato di Vincenzo Spatola e Maria D'Amato in questo post:
👉Storie come strade

Ecco i post dedicati alla storia di Henry Porcelli: 
👉Dopo lo sbarco a Salerno un soldato americano visita la nonna a Valva
👉Sulle tracce del soldato Porcelli
👉Il suo nome era Henry Porcelli
👉Storie come strade
👉La storia di Henry diventa un fumetto
👉L'aviatore valvese che spiccò l'ultimo volo dal Colorado

Alla partecipazione dei valvesi alle guerre combattute in Africa abbiamo dedicato inseguenti post: 
👉I valvesi alla guerra in Africa
👉Due soldati valvesi sul bel suol d'amore

G.V.

15 luglio 2025

UN PITTORE IN PUNTA DI PIEDI

Giovanni Giuseppe Grasso nasce a Valva il 23 ottobre 1908, in via Sant'Antonio.
Il padre Giacinto a questa data risulta "possidente" (negli atti precedenti era muratore), la madre Maria Grazia Spiotta donna di casa.
Testimoni dell'atto di nascita sono Antonio Freda, proprietario, e Amedeo Caprio, calzolaio.
Ci siamo già occupati del periodo della guerra, quando Giovannino è stato nel Genio Ferrovieri.
Ora ci occupiamo della sua produzione artistica, di pittore e scultore.
Anni Cinquanta, sagrato della Chiesa Madre
Giovanni Grasso è in compagnia di Giuseppe Caprio
fonte: Gozlinus

L'arcana magia delle cose lontane
Nel 1975 (21-30 dicembre) la Galleria Carducci di Pescara ospita una sua mostra.
Questa è la bella presentazione firmata da Franca Foselli Breda.

Un naïf pittore e scultore:
GIOVANNI GRASSO 
Giovanni Grasso vive a Valva (Salerno), un paese medioevale, abbarbicato alle rocce, dimenticato.
Nel suo studio silenzioso, accogliente, fantasia e ricordi gli sono compagni.
Pittore schivo, che opera in punta di piedi, in un'epoca in cui l’arte è così soffocata dalle teorie, ci fa scoprire un mondo di fiaba e di magia.
I colori violenti, rubati alla sua terra e alla sua gente arguta e rude, consapevole di vivere per vivere l’essenziale, sono un atto d’amore, la fonte prima della sua ispirazione.
Le nature dei suoi quadri sono ricche, travolgenti, ma tutto, nonostante tutto, è profondamente naïf.
Vissuto per lungo tempo in Venezuela, dove lo ha spinto la sua natura di artista-esploratore, nelle foreste sulle rive dell’Orinoco, «il grande fiume» dei popoli indios, Giovanni Grasso ha appreso l’arte della scultura lignea, ingenua ed essenziale.
Egli ci presenta, in questa personale, tele pervase da una «istintività» che lo accosta ai grandi «semplici», e, in omaggio a popoli che ha conosciuto o che sogna di conoscere, idoli di una eleganza stupenda, che portano impressa l’arcana magia delle cose lontane, proibite.

Di questo testo mi colpisce innanzitutto il titolo.
Naïf è usato come se fosse un sostantivo; pittore e scultore vengono dopo, utilizzati come aggettivi. Per l'autrice, dunque, Giovanni Grasso non dipinge in stile naïf ma è egli stesso naïf, dunque incarna in sé quello che il termine evoca, a partire da uno sguardo puro sul mondo, infantile. Questo sguardo, tipico di un'arte istintiva, si contrappone al mondo accademico, all'arte come teoria: Grasso cerca una sua purezza espressiva.
Significativo il riferimento a Valva: il paesino "medievale, abbarbicato alle rocce, dimenticato" è visto come un luogo interiore, un'arca della semplicità dalla quale Giovanni Grasso trae ispirazione. La gente di Valva, "arguta e rude" - per usare le parole dell'autrice- rappresenta un mondo essenziale, con una sua sapienza che non viene dai libri ma è un tesoro tramandato con la memoria, il lavoro manuale, l'esperienza. 
Ecco che Giovanni Grasso sembra esprimere sulla tela e nel legno questo modo istintivo di aderire alla vita, di comprenderla, di farci i conti.
Un'altra mostra si è tenuta a Valva nel 1983 (23-30 ottobre), nel prefabbricato del Municipio.
Il blog Gozlinus l'ha ricordata nel seguente post:

Piccola galleria
Riteniamo utile soffermarsi su alcune sue opere, come se fossero  finestre aperte sul suo mondo interiore. In questa breve galleria visiva si possono riconoscere alcuni tratti distintivi della sua arte: l’uso di colori intensi, la vitalità delle scene, il richiamo alle origini contadine e la suggestione di mondi lontani. 
Analizzare queste opere consente di avvicinarsi non solo all’artista, ma anche alla sua concezione dell’arte come forma di testimonianza viva, radicata nella vita e nel sentimento.
Ecco un esempio di colori violenti come "atto d'amore" verso la natura: un'esplosione di vita in un "mondo di fiaba e magia".

Pavone su un ramo; fonte: Gozlinus
Valvese è sicuramente il personaggio qui ritratto:

Ritratto di Vito Feniello, Guardia Civica; 
collezione custodita presso il Municipio di Valva
Questa potrebbe essere Piazza della Rimembranza a Valva prima del terremoto del 1980:
Fine anni Ottanta, poco prima della morte di Giovannino Grasso.
Muore un merlo a cui una famiglia è molto affezionata. L'anziano pittore lo trasforma in un quadro che possa in qualche modo mantenerlo presente.

Collezione privata
Nella collezione custodita presso il Municipio di Valva troviamo alcune statuette in legno, ispirate all'arte precolombiana.
In questa statuetta, Grasso sembra cercare l'anima e il simbolo più della forma naturalistica.
In quest'altra invece sembra puntare più sul racconto: si nota una maggiore attenzione alla figura umana e alle sue emozioni; sembra che l'opera vada alla ricerca dell'umano.
Grasso dimostra interesse per le figure dal significato rituale, spirituale; le sue statuette trasmettono un'impressione di mistero. "Idoli di una eleganza stupenda, che portano impressa l'arcana magia delle cose lontane, proibite", per riprendere le parole della presentazione di Foselli Breda.

In un prossimo post continueremo a esplorare la produzione di Giovanni Grasso, soffermandoci su altre opere. Parleremo della mostra recentemente dedicata all’artista nell’ambito della Biennale arte Valva (BaV), promossa dalla Pro Loco  "d'Ayala Valva" su un’idea di Giancarlo Feniello: un’iniziativa che ha rinnovato l’attenzione verso una figura ancora viva nella memoria della comunità.

🙏Grazie
Ad Anna Lisa Del Monte per la gentile collaborazione 
Al Comune di Valva per aver consentito di fotografare le opere della collezione

Fonti
Il testo della presentazione della mostra di Giovanni Grasso a Pescara è tratto dal seguente post di Gozlinus:

13 luglio 2025

GIUSEPPE, UN RAGAZZO DEL '99 CADUTO SUL PIAVE

Sacrario di Fagarè della Battaglia, provincia di Treviso.
Luglio.
Sono venuto qui alla ricerca della sepoltura di tre miei concittadini,  ma nemmeno nel grande registro cartaceo trovo i loro nomi. Ho sempre la speranza che in un registro di carta ci sia una nota, magari scritta a matita, o un foglio ingiallito e piegato male con un elenco aggiuntivo che risolva un mistero.
Nessuna sorpresa, ma non mi arrendo: riproverò in un altro sacrario.

Ho però trovato la sepoltura di un soldato di Castelnuovo di Conza: Giuseppe Annicchiarico.
Era un ragazzo del '99, caduto sul Piave nel giugno 1918, quando ancora non aveva compiuto diciannove anni.
Basta questo pensiero a dare senso ai miei tentativi, un po' disorganizzati, di individuare le sepolture dei soldati del mio paese.

Un soldato tipo
Se dovessi scrivere un racconto o realizzare un corto su un soldato italiano della Grande Guerra, al protagonista darei tre caratteristiche: un nome molto diffuso, ad esempio Giuseppe; lo immaginerei della classe '99, uno dei ragazzi che vanno al fronte quando ormai la guerra è nella fase decisiva; lo immaginerei contadino del Sud che muore sul Piave, mandato a combattere una guerra lontana dalla sua terra perché -come è scritto sul Sacrario di Fagarè- così volle la Patria, amor che vince ogni altro amore. Lo immaginerei caduto sul Piave, perché è questo il fiume per eccellenza del martirio della gioventù italiana.
Dunque, la storia di Giuseppe ne racchiude tante altre simili: ognuna di queste merita di essere ricostruita, raccontata, trasmessa.
La storia di Giuseppe
Non ho molti mezzi per raccontare quella di Giuseppe, ma ci provo.
Giuseppe nasce a Castelnuovo in via Fontana il 23 luglio 1899, figlio di Michelangelo fu Giuseppe e fu Margherita Del Vecchio, contadino di 34 anni, e di Assunta Mariantonia De Rogatis (ma nell'atto di matrimonio risulta De Rogato). 

I suoi genitori si sono sposati nel 1890. Dal registro dei matrimoni ricaviamo alcune informazioni anagrafiche: i genitori di Michelangelo, Giuseppe e Margherita Del Vecchio, risultano già deceduti; i genitori di Assunta sono Domenico (deceduto) e Filomena Giuliano. 
Nel 1894 nasce Giuseppe,  morto a soli tre mesi; nel 1895 nasce la sorella  Amalia. 
Giuseppe partecipa alla Grande Guerra inquadrato nel 244° Reggimento Fanteria 'Cosenza', unità impegnata sul fronte del Piave, dove combatte nella decisiva "Battaglia del Solstizio", quando il reggimento merita la Medaglia d'Argento al Valor Militare.
Il 16 giugno 1918, mentre austriaci e italiani combattono lungo le teste di ponte aperte sul Montello, il Reggimento Fanteria Cosenza viene probabilmente impiegato nelle azioni di contenimento e contrattacco che costringeranno il nemico alla ritirata. 
E' questo il giorno in cui Giuseppe cade in battaglia. 
Dal registro che consulto, risulta che la sua prima sepoltura è stata il cimitero La Fossa, tomba 295.

Quest'anno Castelnuovo di Conza celebra i cento anni del suo monumento ai caduti e dunque rivolgo un pensiero ai suoi giovani morti in guerra, alcuni dei quali così vicini ai miei compaesani nella sepoltura lungo la linea del Piave come lo furono in vita, contadini, pastori o artigiani dalle parti del Sele.

La foto storica del monumento di Castelnuovo di Conza è tratta dalla pagina Facebook dell'ex sindaco Francesco De Geronimo, recentemente scomparso. Questo post è dedicato alla sua memoria.

Approfondimento
Al monumento di Castelnuovo di Conza abbiamo dedicato il seguente post:

Al Sacrario di Fagarè della Battaglia stiamo dedicando una serie di post; ecco il primo:

G.V.

12 luglio 2025

DOVE IL PIAVE COMANDÒ

Sono al sacrario di Fagarè della Battaglia con un proposito non molto razionale: trovare la sepoltura di due -forse anche tre- miei concittadini caduti lungo la linea del Piave, tra il novembre 1917 ("Prima battaglia del Piave") e i mesi di giugno-luglio 1918 ("Battaglia del Solstizio").

Le possibilità di successo sono scarse, perché da tempo associazioni e appassionati hanno individuato, tra i caduti sepolti qui, alcuni soldati il cui luogo preciso di sepoltura era fino ad allora sconosciuto, aggiornando così l'Albo d'Oro con nuove informazioni: se accanto al nome dei miei concittadini non compare questo sacrario, ne deduco che non riposano qui.
Però sono qui perché sentivo di dover esserci.

Mi accoglie con gentilezza il custode, un militare che mi confessa di essere contento di parlare con i visitatori, visto che non sempre vengono.
Il Sacrario è in stile neoclassico, in marmo bianco; ha nove navate.
Nei due vestiboli sono presenti delle lapidi con alcuni celebri bollettini di guerra del Comando Supremo: quelli delle due battaglie del Piave, il Proclama della vittoria.
Mi colpiscono due grafici delle battaglie del Piave. Belli, chiari; sembrano pagine illustrate di un manuale di storia, diventate pietra:


Al centro del porticato c’è una cappella decorata, con un mosaico intitolato L’Apoteosi: un fante morente avvolto nella bandiera italiana, sostenuto da Cristo. Un'immagine che sottolinea il valore del sacrificio dei soldati, interpretato come una sorta di martirio per la patria. 
E' l'idea del soldato come alter Christus. Lo storico Sergio Luzzatto, in un bellissimo saggio dedicato a Padre Pio, sottolinea come nella cultura religiosa e ideologica del dopoguerra i militari fossero rappresentati come figure redentrici: uomini caduti per la patria che rievocavano l'immagine del Cristo sofferente per l'umanità.

Sui lati della facciata sono scolpiti quattro bassorilievi in marmo opera dello scultore Marcello Mascherini, provenienti da un precedente monumento, che illustrano tappe significative della partecipazione italiana alla guerra.

L'entrata dell'Italia in guerra, 24 maggio 1915
fonte: Catalogo generale dei Beni Culturali

Di qui non si passa, 15 giugno 1918
fonte: Catalogo generale dei Beni Culturali

La barbarie nemica sul suolo della Patria, 24 ottobre 1917
fonte: Catalogo generale dei Beni Culturali

Trionfo delle armi italiane, 4 novembre 1918
Fonte: Catalogo generale dei Beni Culturali
All'esterno, lungo le siepi di cinta del sacrario, in teche di vetro sono conservati frammenti originali di muro che recano due frasi passate alla storia, scritte durante la Battaglia del Solstizio (dal 15 al 24 giugno 1918).
Le frasi sono anche riportate sulle pareti esterne laterali del sacrario.
Questa è una delle più iconiche, attribuita a Ignazio Pisciotta, bersagliere impiegato nel servizio propaganda:


A lui viene attribuita anche quest'altra frase, resa celebre da un discorso di Mussolini del 1928 (la commemorazione del maresciallo Diaz) e incisa poi su alcune monete:


Ecco le altre due iscrizioni sulle pareti laterali:


Mi viene in mente il verso immortale di Orazio 

Dulce et decorum est pro patria mori 

che il poeta inglese Owen, soldato della Grande Guerra, definirà The old Lie, "la vecchia menzogna".
Il discorso sarebbe lungo, in effetti; basta però questa contrapposizione per far emergere tutto il contrasto tra la retorica del sacrificio e l'esperienza concreta della guerra.
Il decorum antico indica ciò che è appropriato e onorevole, il valore civico di morire per la patria "come si conviene" a un buon cittadino romano; non mi sorprende che in una di queste iscrizioni sia diventato "uomo onorato", mentre mi colpisce l'aggettivo "divino", che mi sembra tipico della costruzione della memoria dei caduti; il soldato che muore non solo  compie un atto onorevole ma entra in una dimensione sacra: è la "religione della Patria".
Questo sacrario è stato infatti inaugurato nel 1935, durante il fascismo, dopo oltre quindici anni di lenta e dolorosa elaborazione del lutto nazionale. In quegli anni, la memoria del sacrificio dei soldati divenne uno strumento potente di coesione e propaganda, capace di tenere insieme dolore, orgoglio, fede e ideologia. Anche questo luogo mi pare ne sia testimonianza evidente.

In questo processo collettivo di elaborazione del lutto e costruzione di una memoria nazionale, fondamentale è il ruolo simbolico che assume il Piave.

Qui è stato scelto uno dei versi più celebri della Leggenda del Piave, per farne l'iscrizione principale del sacrario.
A ben vedere, però, da queste parti il Piave non si limitò a sussurrare; sempre citando la celebre canzone:
"No" disse il Piave, "No" dissero i fanti
mai più il nemico faccia un passo avanti
E si vide il Piave rigonfiar le sponde
E come i fanti combattevan le onde
Rosso del sangue del nemico altero
Il Piave comandò: "Indietro va', straniero".
Questa sponda del grande fiume ha visto la riscossa italiana dopo Caporetto e la vittoria decisiva del giugno 1918.
È anche un sacrario alla rinascita, dunque, questo luogo che ha elaborato il lutto nelle forme che la mentalità del tempo suggeriva e lo ha trasformato in memoria collettiva, dove il Piave guidò la riscossa.


Sugli argomenti affrontati si vedano anche i seguenti post:

Le foto delle quali non è indicata la fonte sono dell'autore. E si vede.

Fagarè della Battaglia, 1 -continua-

G.V.






04 luglio 2025

BREVE COME UN GIORNO DI NOVEMBRE

Maria Concetta.
Questo è il nome che la bambina porta scritto su un cartello legato al petto.
Chi l’ha lasciata alla ruota di Valva ha aggiunto un particolare: “Battezzata a 10 novembre andante mese ed anno”.
E’ il 13 novembre 1847; “la pia ricevitrice di questa ruota Geronima Libero” presenta al sindaco Giovanni Marcello “una bambina, avvolta in pochi cenci, che è stata esposta a questa suddetta ruota in questa scorsa notte a circa le ore quattro, la quale dimostra di essere venuta alla luce pochi dì innanzi”.
Il sindaco impone alla bambina il cognome Pinto (ma il testo non è chiarissimo), la iscrive nel “registro di atti diversi” (e non nel registro delle nascite), “per dare esecuzione alla legge”; poi la invia al parroco per farla battezzare, “dubitando della veracità del biglietto che portava”.
Sembra l’inizio di una bella storia: una trovatella che diventa adulta e magari va in America dove fa fortuna e diventa mamma e nonna di una bella famiglia.
Invece, nel registro di atti diversi del 1847 alla pagina successiva troviamo la triste fine di questa storia.
Il 18 novembre Felice Vacca (che era il becchino comunale, anche se in questo atto risulta semplicemente “bracciale”) e Francesco Feniello dichiarano che “a circa le ore dieci di questa scorsa notte” è morta la “projetta” Maria Concetta Pinto, “esposta a questa ruota nella notte antecedente al dì 13 novembre”.
Forse dovremmo ricercare queste storie raccontate nei registri di atti diversi: come anomalie nella quotidianità dell’Ottocento, in cui il padre -o in alcuni casi la levatrice- andava in comune e mostrava il neonato -a quanto riportano i registri- al sindaco, che lo vedeva e ne registrava la nascita alla presenza di due testimoni. Il ritrovamento -e in alcuni casi la morte- di un trovatello -o un “projetto”, con la grafia del tempo- era un evento per il quale era previsto un registro particolare.
A questi "gelsomini notturni" il nostro blog cercherà di dedicare un lavoro che aiuti a conoscerne le vicende.

G.V.